Clara e il gruppo Balint (P. Palumbo)
Ero stanca di questo lavoro, di questi pazienti noiosi e lamentosi.
Entravo in ambulatorio sperando di uscirci il prima possibile.
Quando un paziente cominciava a parlare troppo mi alzavo in piedi e gentilmente gli facevo notare che altre persone aspettavano.
Era una corsa per arrivare il prima possibile all’orario di chiusura dell’ambulatorio… “Perché non frequenti un gruppo “Balint”? Ricordi , te ne avevo già parlato anni fa? Sono un gruppo di medici di famiglia che si addestrano al rapporto medico-paziente, si interessano di relazione con il paziente, presentano dei casi clinici difficili dal punto di vista relazionale e ne discutono fra loro. Ho un caro amico che da anni fa il conduttore di un gruppo , chiamalo ti dò il numero di telefono, mi diceva una amica psicologa.
Dopo mesi di ripensamenti decido, telefono e vado ad una serata di un gruppo “Balint” a Saronno.
Grazie a quest’esperienza ho rivalutato moltissimo la figura di Medico di Famiglia, ho scoperto quanto importante sia per pazienti che io li ascolti senza poi dare soluzioni, ricette o medicine. Questo aspetto particolare del semplice ascolto non lo avevo mai valutato: sono stata abituata fin dai tempi dell’università a risolvere problemi e a trovare soluzioni: mi innervosivo se alle richieste dei pazienti non trovavo soluzioni, perché spesso soluzioni non ce ne sono: volevo a tutti i costi trovare una risposta o risolvere il loro problema: non riuscire mi dava un senso di frustrazione mista a rabbia che inevitabilmente scaricavo sul paziente successivo.
Ho scoperto l’importanza di permettere loro di lamentarsi.
E ora mi piace ascoltarli, lasciarli sfogare, dargli tempo… e loro sono diventati più gentili e ogni tanto mi chiedono: “E lei dottoressa coma sta?”
Si interessano anche loro a me. Che bella sensazione!
Con Clara in tutti questi anni, più di quindici, l’ascolto mi era riuscito spontaneo e facile, senza pensarci: una donna simpatica, piena di vita, di interessi, faceva l’attrice, viaggiava, si vestiva con vestiti e sciarpe colorate, era iperattiva. Sempre sorridente, entrava in ambulatorio con qualche piccolo disturbo, si faceva visitare, ascoltava il mio parere attentissima alle mie parole, poi quasi si schermiva per avermi disturbato e usciva sempre contenta.
Dieci anni fa si era ammalata di tumore alla mammella, solita trafila: intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia, controlli oncologici semestrali.
La malattia l’aveva spaventata, le aveva creato qualche ansia e paura, ma aveva reagito in modo positivo, combattiva come sempre, con la sua solita voglia di vivere; era disturbata non tanto dagli esiti delle terapia, ma dal sentirsi un numero, una dei
tanti, non si sentiva trattata da persona dagli oncologi, ma come paziente aderente al protocollo.
Dopo la chemioterapia aveva ripreso a viaggiare, a recitare in qualche spettacolo, a leggere, mi aveva anche raccontato di un nuovo amore.
Qualche volta veniva da me in studio con qualche piccolo disturbo, in preda all’ansia per la paura di una recidiva: voleva essere rassicurata che quel dolore accusato non fosse legato alla sua malattia. Ma il suo modo di parlare e di comportarsi era tale, che io non sentivo mi buttasse addosso la sua ansia , né cercava risposte impossibili, mi comunicava le sue paure ma nello stesso momento mi raccontava l’emozione provata nel suo ultimo viaggio o nel suo ultimo lavoro teatrale: io la ascoltavo , le prescrivevo a volte degli ansiolitici ,ma soprattutto la ascoltavo: mi piaceva ascoltarla. Lei mi diceva che usciva da me più tranquilla e serena. Io rimanevo sempre stupita dalle sue parole, in fondo mi sembrava di non fare molto. A volte mi chiamava durante qualche viaggio per comunicarmi qualche suo disturbo: io la ascoltavo, cercavo di trovare una spiegazione ai suoi sintomi e lei si tranquillizzava. Tutto questo con ansia, ma controllata, quasi dispiaciuta e nello stesso tempo ironica.
Circa due anni fa la recidiva: prima mediastinica, poi polmonare e cerebrale. All’inizio l’accanimento terapeutico degli oncologi era giustificato e approvato sia da lei che da me: bisognava tentare il tutto per tutto e combattere.
Clara riusciva, fra una chemioterapia e l’altra, a recitare e viaggiare: la sua voglia di vivere, il suo entusiasmo le davano una forza straordinaria. Aveva perso i capelli, ma non portava la parrucca, ma dei foulard coloratissimi e sempre intonati al colore del vestito.
Dopo un po’di mesi l’accanimento terapeutico per me non era più giustificato, la malattia era troppo avanzata, era molto debilitata e le terapie erano devastanti sia fisicamente che psicologicamente. Anche Clara cominciava a essere dubbiosa sul loro esito: inoltre si lamentava che gli oncologi erano diventati evasivi, durante le visite avevano sempre fretta, nessuno parlava più del necessario, evitavano di rispondere alle sue domande.
Anch’io cominciavo ad essere in difficoltà: andavo a casa sua, la visitavo e non sapevo cosa dirle, ero imbarazzata. Un giorno gli oncologi le avevano proposto oltre alla solita chemioterapia, una visita specialistica per cure palliative a domicilio (secondo me per sbarazzarsene, non perché fosse il momento). Quando me lo ha detto mi sono sentita come se mi mancasse la terra sotto i piedi: era come una sentenza di condanna a morte.
Mi è uscito istintivamente senza che quasi mi rendessi conto di quello che stavo dicendo: “che cure palliative! Per ora la cosa migliore è che io e lei andiamo a mangiarci una pizza“. Lei si è illuminata, era felice, quasi incredula. ha subito accettato e mi ha chiesto se potevamo darci del tu.
Io nel momento in cui ho realizzato cosa mi era uscito dalla bocca mi sono spaventata: che cosa le avevo detto, che serata mi aspettava, cosa dovevo fare a questo punto, di cosa avremmo parlato?
Per fortuna mercoledì c’era il “Balint” e potevo portare il caso e condividere con i miei colleghi il “guaio“ che avevo combinato.
Confesso che mi succede una cosa strana: dopo che ho portato un caso al Balint, dopo aver sentito le interpretazioni degli altri su ciò che è successo fra me e il mio paziente, esco sempre sollevata e soddisfatta, sono più consapevole di ciò che è successo fra me e il paziente, cosa voleva da me in quel momento, perché mi sono innervosita o commossa, capisco più chiaramente cosa dovrò fare e dove ho magari sbagliato, ma mi risulta difficile parlare di ciò che si è detto nel gruppo, fare una sintesi dei vari interventi.
Così mi è successo anche per questo caso: vi racconto com’ è andata
Dopo la serata in cui ho portato il caso di Clara al “Balint“, la prima cosa di cui mi sono resa conto era che avrei dovuto pensare che cosa significava la mia proposta per lei e per me: ormai non potevo più tirarmi indietro dovevo continuare a seguire il mio istinto come per altro avevo sempre fatto con lei.
Dovevo cercare di semplificarle questi giorni e ascoltarla come sempre.
La serata in pizzeria è stata piacevolissima: Clara era vestita con dei pantaloni viola una giacca coloratissima e un foulard dello stesso colore dei pantaloni: camminava con difficoltà, era truccata e sorridente. Era settembre, faceva ancora caldo e siamo andate in una pizzeria con giardino vicino a casa sua: abbiamo percorso circa 100 metri in mezz’ora tanto lei si affaticava.
Durante la cena mi ha raccontato episodi della sua vita di attrice, di come per anni non avesse una casa ma solo un grosso baule che la seguiva ovunque, dell’ultima storia d’amore, del libro che stava leggendo: io la ascoltavo divertita. A mia volta le raccontavo episodi della mia vita, ma con molta difficoltà, come se volessi lasciare più spazio a lei.
Mi ha raccontato che era un anno che non usciva di casa se non per visite o terapie. Non abbiamo mai parlato della sua malattia.
Tornando abbiamo incontrato dei suoi vicini di casa stupiti di vederci insieme, che ci hanno invitato a bere un bicchiere di vino e abbiamo brindato alla nostra serata.
Nel giro di 2 mesi la situazione è precipitata: lamentava una dispnea importante e dolori che avevo paura di non essere in grado di controllare con le mie competenze sulla terapia del dolore.
Abbiamo deciso insieme di attivare le Cure Palliative.
Clara mi sottoponeva sempre i referti dei medici palliatori, e non faceva nulla se io non ero d’accordo. Io andavo regolarmente a casa sua, lei mi raccontava le difficoltà, le liti con gli oncologi che ancora le proponevano nuove terapie senza rispondere ai suoi interrogativi, le visite delle sue amiche e del suo compagno che aveva paura a dormire da lei, e io ascoltavo, ascoltavo…
Si lamentava soprattutto del fatto che nessuno le diceva come stavano veramente le cose: gli oncologi glissavano le sue domande, avevano sempre fretta, non facevano previsioni. Io la ascoltavo, ma a me domande dirette non ne faceva.
Una sera dopo averla visitata mi ha detto: “Secondo me mi mancano non più di quindici giorni, cosa ne dici?
“Non ho la sfera di cristallo, ma credo tu abbia ragione” le ho risposto sorridendo, stranamente non imbarazzata.
Mi ha sorriso, mi ha ringraziato. Mi ha detto che quella sera voleva organizzare una cena a casa sua con le sue amiche.
Io le ho detto che mi sarebbe piaciuto avere un suo libro, un libro che lei aveva letto e che le era piaciuto .
Ci avrebbe pensato nei prossimi giorni e poi me lo avrebbe dato.
Sono uscita da casa sua che non ero triste, stavo bene, avevo voglia di camminare, di respirare a pieni polmoni, di stare in mezzo agli alberi.
Il giorno dopo nel pomeriggio Clara è morta.
Non ha fatto a tempo a scegliere il libro per me, ma la sera della cena con le amiche aveva detto a Lorenza che avrebbe dovuto regalarmi un suo libro e che voleva pensarci bene.
Lorenza dopo qualche giorno è venuta in studio e mi ha portato uno dei libri che a Clara era piaciuto molto: “Il Circolo Pickwick”: un libro vissuto, con le pagine “spesse”, ricoperto con una carta colorata, colorata come i suoi vestiti.
Paola Palumbo
Medico Medicina Generale