2024 – Utilizzo del metodo Balint per il sostegno alla genitorialità nell’approccio integrato ai DCA e altre patologie mentali in adolescenza e tarda adolescenza
Articolo pubblicato sulla Rivista di ARGO Associazione Ricerca Gruppo Omogeneo, n. 9
Federica Menaldo, Beatrice Dusi
Abstract
Questo articolo illustra la ricerca svolta per valutare l’efficacia di gruppi di supporto per genitori di figli con disturbi del comportamento alimentare ed altre patologie mentali in adolescenza e tarda adolescenza. La ricerca è stata possibile grazie alla disponibilità a parteciparvi da parte dei genitori che avevano frequentato i gruppi condotti dalla dott.ssa Federica Menaldo, responsabile dell’area genitori presso il Centro di Psicoterapia Fida- Corpo Specchio di Verona. Il materiale prodotto è diventato oggetto della tesi di abilitazione in Psicologia presso l’Università di Padova della dott.ssa Beatrice Dusi che ha somministrato ed elaborato i test e le interviste ai genitori. Vista la necessità di un approccio integrato nella cura dei DCA e di altre patologie mentali che comprenda sia la cura dei figli sia un supporto genitoriale, come espresso nelle linee guida per la cura di tali disturbi, abbiamo utilizzato un nuovo intervento sperimentale basato sul modello dei gruppi Balint.
La genitorialità diventa un compito altamente stressante nel momento in cui insorgono e permangono disturbi del comportamento alimentare o di altro tipo nei figli. Per aiutare i genitori dei ragazzi in terapia a ridurre le emozioni negative che ostacolavano la relazione con i figli, è stata quindi proposta la partecipazione ai gruppi di supporto, condotti attraverso un uso sperimentale di adattamento della metodologia Balint, di origine psicoanalitica.
Il metodo utilizzato è stato ampiamente riconosciuto ed utilizzato in ambito sanitario al fine di offrire una formazione psicologica agli operatori e, nello specifico, prevenirne il burn- out supportandoli nella relazione medico- paziente e in generale curante-paziente. Si è constatato che i gruppi Balint accrescono le capacità di coping nei partecipanti, favoriscono una mentalità psicologicamente orientata ovvero un ascolto attivo ed empatico, ponendo al centro la relazione curante-paziente. Il gruppo Balint era già stato precedentemente esteso, prima a diversi operatori socio-sanitari e in seguito anche ad educatori, tutti caratterizzati dal fatto di essere immersi in situazioni dense di disagio emotivo, caratterizzate da incomprensioni tra operatori e assistiti. Nel lavoro del medico, si può verificare infatti molto spesso una mancanza di empatia nella relazione con il paziente, che ostacola la reale comprensione della richiesta di aiuto, a causa di un forte coinvolgimento e della paura di fallire. Allo stesso modo i genitori, che si trovano a dover affrontare la malattia del figlio, si sentono spaventati, l’ansia raggiunge livelli elevati ed attribuiscono alla malattia significati non corrispondenti alla situazione reale del figlio. Per i genitori, la malattia (del figlio) che si trovano a dovere fronteggiare, rappresenta un pensiero tormentoso talmente invadente da ostacolare negativamente la comunicazione con il figlio. Viste le numerose associazioni e parallelismi riscontrati nella relazione tra medico-paziente e genitore-figlio, si è provato ad estendere la metodologia derivata dal Balint appunto anche a gruppi di supporto per genitori, pur nella consapevolezza delle differenze tra i due tipi di rapporto. L’obiettivo del gruppo è proprio quello di migliorare la comunicazione tra le parti in gioco, affinando le capacità di ascolto attivo ed empatico, con l’utilizzo delle emozioni suscitate, e addestrando i partecipanti ad identificarsi nei casi discussi attraverso a una specifica metodologia: un genitore espone un caso, descrive cioè una “vignetta” ovvero un episodio avvenuto in famiglia, riproducendo la comunicazione che si è svolta con il figlio. Dopo un attento ascolto, il presentatore del caso si pone a sua volta in ascolto silenzioso, senza più prender parte al lavoro del gruppo, mentre i partecipanti iniziano a commentare il fatto presentato, partendo dalle sensazioni che il racconto ha suscitato; quindi segue un arricchimento progressivo della discussione con i vari contributi dei partecipanti e con l’orientamento, da parte di chi conduce il gruppo, a far sì che la discussione mantenga il focus sulla relazione tra il genitore-genitori e il figlio. Con particolare attenzione al tipo di comunicazione che ha caratterizzato lo scambio. Attraverso l’identificazione e il distanziamento, i partecipanti riescono ad attivare nuove riflessioni, che contribuiscono man mano a una migliore comprensione del disagio sofferto dal figlio, ma anche ad una comprensione più corretta delle risposte date dai genitori, che spesso non leggono nel malessere dei figli la vera richiesta, imprigionati come sono nelle angosce e nell’impotenza. Il lavoro corale del gruppo, con i diversi punti vista sottesi da diverse forme di sensibilità, abitua nel tempo i genitori ad integrare nuove letture delle situazioni, ad abbandonare vecchie rigidità e a modificare possibilmente i propri comportamenti disfunzionali all’interno della relazione. Nel corso della discussione il conduttore del gruppo aiuta i partecipanti sollecitandoli a mettersi a turno nei panni del genitore che si descrive e in quelli del figlio che egli vorrebbe aiutare: i commenti e le interpretazioni del caso aiutano così a diventare più consapevoli del proprio modo di sentire e pensare, grazie a un ascolto attento ed empatico dell’altro. Concretamente, si lavora sul caso per capire “chi chiede” e “cosa chiede” realmente nella vicenda presentata, compito estremamente complesso dal momento che entrano in gioco emozioni spesso anche inconsapevoli, che ostacolano l’ascolto attivo, soprattutto all’interno di una relazione estremamente significativa e intima come quella tra genitore e figlio. In un setting protetto come quello del gruppo, è possibile esplorare le proprie emozioni consce o meno, così da poter comprendere alcuni comportamenti dei propri figli che inizialmente appaiono inspiegabili. La presenza, la regolarità e la ciclicità degli incontri e la costante condivisione, permettono ai partecipanti una raffigurazione mentale e l’interiorizzazione dell’entità Gruppo come contenitore rassicurante che consente di affrontare le emozioni, senza necessità di negarle o paura di esserne travolti. La necessità di strutturare nuovi percorsi di aiuto per i genitori parte dalla consapevolezza da un lato della crescente richiesta di aiuto e dall’altro della necessità di includere la famiglia nei processi di cura delle malattie psichiche, soprattutto del periodo adolescenziale, come indicato dalle linee guida del ministero della salute. Lo scopo sostanziale del gruppo è quello di migliorare la relazione tra genitori e figli promuovendo una comunicazione più corretta, di proteggere il benessere familiare e addestrare al lavoro di gruppo che, all’interno della famiglia, si tramuta nella capacità di cooperare positivamente tra i vari membri di cui è composta. Il percorso, ispirandosi alla metodologia Balint, si struttura in piccoli gruppi composti da sette a dodici partecipanti, che si incontrano una volta a settimana per un’ora e mezza.
Obiettivi della ricerca
Vista la scarsa letteratura rispetto al lavoro clinico svolto con le famiglie di ragazzi con disturbi del comportamento alimentare e altre patologie in adolescenza,n particolare attraverso l’approccio psicoanalitico, l’obiettivo della presente ricerca è quello di sondare l’efficacia del metodo dei Gruppi Balint adattati a genitori o famigliari.
PARTECIPANTI
Alla nostra ricerca hanno partecipato 17 genitori, tra cui 8 uomini e 9 donne. Alcuni genitori hanno partecipato in coppia, altri da soli.
STRUMENTI E PROCEDURE
Per la valutazione, è stata fatta una raccolta anamnestica, sono stati somministrati un questionario self report PERS e un’intervista semistrutturata Mental Health Recovery Star.
RISULTATI
PERS è un questionario self report che valuta la regolazione emotiva genitoriale ovvero la capacità del genitore di sapere cosa prova e come lo esprime all’interno della relazione con il figlio. La MENTAL HEALTH RECOVERY STAR è un’intervista semistrutturata, quindi con domande già pre-impostate, ma che lasciano spazio e apertura nella risposta per il candidato, e valuta la qualità della vita del soggetto partendo dalle relazioni, le competenze e i valori della persona. Analizza la qualità della vita del soggetto, con particolare attenzione alla fase di cambiamento nelle diverse aree.
I risultati dei test e delle interviste mostrano un miglioramento della relazione genitore- figlio, grazie all’acquisizione di strumenti mentali, quali l’ascolto empatico e una maggiore consapevolezza di sé, della malattia del figlio e delle relazioni familiari. Dalla maggior parte dei partecipanti viene inoltre messa in evidenza l’importanza che ha avuto il gruppo nella riduzione del senso di solitudine, dei sensi di colpa e di inadeguatezza come genitore. La nostra ricerca presenta dei limiti dovuti all’assenza di dati pre-test (il gruppo in fondo era già formato e operativo da un po’ di tempo, in seguito a richieste di aiuto che erano state accolte, sempre all’interno del percorso globale presso il centro, di recupero dei gravi disagi dei figli/familiari). Ci proponiamo naturalmente di effettuare una raccolta di dati pre-test nel momento in cui verranno attivati nuovi gruppi per genitori così da poter misurare i risultati all’inizio ed alla fine dell’esperienza.
CONCLUSIONI
Le risposte ai questionari somministrati e alle interviste suggeriscono alcune conclusioni:
1. alcune sono relative alle dinamiche genitori-figli e alle difficoltà presenti nelle famiglie;
2. altre riguardano il funzionamento del gruppo sperimentale Balint di aiuto ai genitori e l’efficacia di questo metodo di supporto.
Famiglie
Nella cura di pazienti adolescenti o giovani adulti, con gravi patologie alimentari, borderline o psicotiche è non solo utile, ma necessario riuscire a coinvolgere i genitori nei trattamenti per una maggiore possibilità di esito positivo delle cure ed evitare il più possibile il rischio di cronicizzazione: il coinvolgimento dei familiari costituisce infatti un rinforzo importante dell’impegno terapeutico, in quanto prolunga il tempo e la qualità dell’attenzione di cura, estendendola anche alla quotidianità della vita familiare. Si assiste però spesso a una scarsa motivazione iniziale da parte dei genitori, in quanto non si sentono parte del problema, ma riconoscono solo nel figlio la malattia; questi atteggiamenti, come testimoniano le interviste, vanno considerati e affrontati perché rendono difficile l’alleanza terapeutica, necessaria per i trattamenti e una volta iniziati a non interromperli. Pertanto il compito iniziale del conduttore del gruppo è quello di riuscire a motivare i partecipanti, aiutandoli a comprendere che il loro impegno è fondamentale perché li rende parte attiva nel processo di cura dei figli.
I genitori nel gruppo venivano invitati a non sprecare energie nel colpevolizzarsi e deprimersi, a diventare consapevoli che attraverso la malattia si evidenzia la difficoltà dei figli a vivere, a causa di una immaturità più o meno grave della personalità che l’esordio della malattia porta in evidenza. Sono ragazze/i che non riescono a vivere pienamente la loro età e questo genera in loro la disperazione in cui sono coinvolte le famiglie. Pertanto, come sottolineano nelle interviste i genitori divenuti più consapevoli, questi figli non riuscivano ad esprimere e far valere i loro autentici bisogni, a farli capire anche in casa e ad affrontare i conflitti fisiologici che in adolescenza possono insorgere in famiglia di fronte alla loro esigenza di crescita. Oltre alla motivazione, il gruppo ha anche un valore formativo perché i genitori possono comprendere meglio con l’aiuto degli altri partecipanti cosa si nasconde dietro ai comportamenti malati dei figli, e imparare a dare spazio ai bisogni autentici che questi manifestano ancora con drammatiche difficoltà, sentendosi inadeguati o impotenti. I figli si riducevano a sottacere bisogni e volontà, si conformavano ai genitori o agli altri familiari o a figure adulte esterne come gli insegnanti a scuola. Arrivavano al punto di soffocare se stessi, rinunciando alla propria identità, difficoltà che si svelava ad esempio nel momento in cui veniva richiesto loro di essere autonomi ad esempio durante gite, viaggi studio, ecc. In queste situazioni vivevano un senso di vuoto e panico, si scoprivano cioè bloccati o poco attrezzati quando si preparavano all’uscita dalla famiglia. L’esordio della malattia segnalava pertanto la pseudo/normalità dei ragazzi e una specifica difficolta a muoversi autonomamente nelle tappe adolescenziali di crescita. In questi casi, non solo i desideri, ma anche le normali manifestazioni reattive o di aggressività necessarie alla separazione e alla progressiva costruzione di un po’ di autonomia, venivano soffocati per i sensi di colpa: quella di far soffrire i propri genitori se ci si concedeva di crescere e ci si affermava in modo diverso da quanto questi si aspettavano. Tutto questo è stato ben espresso dai genitori nelle interviste. Questo tipo di meccanismo, sostenuto generalmente dal senso di colpa, è riscontrato spesso nei comportamenti sottesi ai disturbi alimentari di ragazze/ragazzi molto bravi o perfetti che non possono deludere i genitori e non danno problemi finché non irrompe la malattia. Questi ragazzi, quando affrontano i coetanei a loro volta non reggono frustrazioni e delusioni, frutto spesso di precedenti eccessive idealizzazioni; si sentono falliti e si deprimono ritirandosi dalle attività che svolgono e dalle persone che frequentano, e talora anche dalla scuola. Su questi atteggiamenti di perfezionismo costruiscono una maschera difensiva per rendersi accettabili agli altri, una facciata di normalità soffocante che copre la loro natura autentica e che diventa la gabbia da cui cercano di uscire con l’irrompere della malattia. In varie interviste dei genitori questi tratti di eccessive rigide idealizzazioni emergono come tratti familiari interiorizzati. Tali atteggiamenti valoriali sono molto presenti ed esasperati nella nostra società dell’immagine e del successo e nelle ragazze e nei ragazzi con disturbi alimentari, appaiono eccessivi e poco realistici. Alcuni di questi genitori, come dichiarano nelle interviste, hanno un grosso senso del dovere, sono molto impegnati, bravi e perfezionisti e trasmettono alle figlie e ai figli questi atteggiamenti e valori che si esasperano in alcuni figli in adolescenza. Le aspettative perfezioniste delle figlie/i, che compensano la depressione sottostante, sembrano dunque presenti anche in alcuni genitori e famiglie.
Il gruppo
Nelle risposte alla nostra inchiesta i genitori si sono espressi ampiamente con apprezzamento e soddisfazione (come si può evidenziare dalle loro risposte) verso la funzione di supporto e di arricchimento ricevuta dal gruppo, avendo trovato in particolare negli altri partecipanti l’aiuto a sostenere la fatica di essere genitori con figli in gravi difficoltà.
Hanno condiviso nel gruppo le fatiche quotidiane della crescita dei figli, fatiche che andavano ad acuirsi caricandosi anche del dolore nel vederli così sofferenti, impauriti e impotenti davanti all’imprevedibilità della malattia. Le interviste testimoniano come, aiutati dal gruppo, i genitori hanno saputo sostenere i figli nel non interrompere le loro terapie (si parla di “sindrome della porta rotante” nei disturbi alimentari riferita alla tendenza ripetuta a interrompere una terapia e cominciarne un’altra e questo fenomeno è frequente in genere nei disturbi mentali gravi che richiedono trattamenti prolungati per riequilibrare la personalità). Inoltre, il gruppo aiutava anche i genitori stessi a sostenersi reciprocamente per continuare a credere di poter cambiare la situazione quando nel percorso perdevano fiducia di fronte alle ricadute o a momenti di regressione dei figli. Il gruppo in questo senso mostrava di esser riuscito a far squadra puntando all’obiettivo di lavoro che si era prefissato, ovvero quello di supportare le terapie dei figli. Nel gruppo si cercava di portare i genitori a non deprimersi, ma ad usare le energie per riuscire meglio ad ascoltare i bisogni dei figli e a cercar di risolvere i problemi che la relazione con loro poneva quotidianamente. Si trattava anche di portare i genitori ad avere aspettative realistiche, a non aspettarsi risultati facili e immediati, diventando consapevoli della necessità del loro impegno e della loro partecipazione in quanto la patologia coinvolge tutta la famiglia, non solo il singolo. Come affermano alcuni genitori nelle loro interviste, la fiducia nel percorso di cura risulta essere una precondizione necessaria per compierlo. Nel gruppo si lavorava per far capire che le persone e le relazioni sono complesse, composte di elementi ben visibili e consapevoli ed altri invisibili e inconsapevoli, spesso anche legati ad aspetti transgenerazionali. E’ proprio la poliedricità delle espressioni di gruppo che facilita l’emersione di questi elementi non-visibili,‘rivelati’ magari dall’ intervento di qualche altro partecipante: elementi che invece non può cogliere da-sè e in-sè il presentatore del caso.
Il metodo di allenamento dei genitori (di origine Balint e quindi derivante dalla psicoanalisi) prende in considerazione e si prefigge di allenare a osservare in particolare gli aspetti emotivi, componenti importanti e nascoste delle relazioni e possibilmente di imparare ad usarle. Consiste nell’estrapolare quindi le emozioni e i loro vissuti dai racconti di vita quotidiana cercando inoltre di differenziare le richieste e i bisogni: sono dei figli o dei genitori? Lavorando insieme si passa gradualmente dal mondo dei pensieri a quello delle emozioni e dei sentimenti che, se trascurati o non adeguatamente integrati, tornano come fantasmi divisivi e distruttivi attraverso la malattia. Si prende contatto con le proprie fragilità, proiettate sui figli, i quali le impersonificano attraverso la malattia: solo se si prende coscienza di esse, sono meno d’ostacolo per sé e nella relazione coi figli. Alcuni genitori preferiscono un lavoro individuale o di coppia, ma le funzioni che svolge il gruppo sono multiple e più efficaci in quanto si fa esperienza di alcune dinamiche, parallele a quelle che si vivono in famiglia tra genitori e figli. Nel gruppo è possibile innanzitutto viverle e poi osservarle e discuterne, prendendo molti punti di vista diversi. Nelle risposte dei genitori, è possibile notare come i cambiamenti ottenuti e la incidenza sui risultai raggiunti siano direttamente proporzionali alla durata della partecipazione e alla frequenza al gruppo. Essi testimoniano come una partecipazione al gruppo di minor durata, fornisce informazioni sui sintomi ed il significato della malattia, ma incide meno profondamente sulle relazioni interpersonali familiari e sulla consapevolezza di queste: tale percorso appare parallelo a quello della terapia dei figli, i quali hanno bisogno di un lungo percorso per poter trasformare oltre al sintomo, anche la componente di personalità che conduce a quel sintomo. Chi ha partecipato per lungo tempo ha ottenuto cambiamenti più profondi in se stesso, nella relazione coi figli e anche nella coppia; alcuni genitori infatti affermano nelle interviste di essersi ritrovati come coppia condividendo questo percorso di cura, dato che la malattia inizialmente li aveva portati ad allontanarsi.
Il gruppo rappresenta una prima apertura per queste famiglie, le quali a volte appaiono chiuse alle relazioni extra familiari. Tale chiusura può caratterizzare certi assetti familiari, ma in generale tende ad aumentare a seguito della malattia del figlio. I trattamenti separati e paralleli di genitori e figli, offrendo anche ai genitori l’opportunità di collaborare alla cura lavorando in un gruppo parallelo, offre contemporaneamente le condizioni per una concreta apertura delle famiglie e dei loro legami, con una caduta dei muri difensivi verso l’esterno e l’introduzione di nuovi legami. Attraverso le vignette portate a turno dai genitori e osservando quanto accade nella quotidianità, si focalizzano i conflitti che si producono tra genitori e figli, mentre si sperimentano nel gruppo i conflitti latenti o espliciti tra i partecipanti e con il conduttore. Nel gruppo si impara ad osservarsi nella relazione, ad aspettare il proprio turno, a stare in silenzio e ascoltare, a lasciar parlare, a lasciare spazio all’altro, a chiederlo se necessario, ad ascoltare i bisogni reciproci, a tollerare i conflitti e ad esprimerli dando una misura all’aggressività e superandone la paura, che spesso si cela dietro l’impossibilità di esprimere la rabbia all’interno di queste famiglie. Rabbia che è “necessaria” alla separazione: lo scontro o meglio il confronto sono conseguenza di idee diverse che danno la possibilità al ragazzo di esprimersi liberamente e, constatando che nulla viene distrutto, di cercare più coraggiosamente di diventare sé stesso, cercare una identità differente dai propri genitori e capace di maggiore autonomia. Nei casi più gravi si tratta di aiutare i ragazzi e i loro familiari a superare una visione persecutoria inconsapevole (basata su esperienze traumatiche reali o fantasmi trasmessi anche per via transgenerazionale) che impedisce di far emergere apertamente i conflitti in famiglia e superarli tutti insieme. In questi casi la relazione familiare viene sentita pericolosa perché inconsapevolmente si connota come esercizio di potere più o meno violento dell’uno sull’altro per controllarsi completamente e reciprocamente. Esprimere la rabbia per difendere il proprio spazio e la propria volontà, per essere rispettati diventa difficile o impossibile perché difendersi assume sempre il significato di prevaricare, umiliare o schiacciarsi l’uno l’altro. I figli incapaci di difendersi o subiscono lasciandosi invadere fino all’annichilimento di sé o reagiscono facendo violenza a se stessi o ai familiari. Se i figli vivono in questo modo la relazione familiare in seguito ad una situazione reale o soggettivamente vissuta restano bloccati dai sensi di colpa e dalle paure, spaventati dalle possibili reazioni proprie e dei genitori; restano dipendenti e simbiotici isolandosi gradualmente dall’esterno e spesso anche in famiglia, senza maturare attraverso un conflitto aperto e franco quella sicurezza e autostima necessaria per individuarsi e assumere le responsabilità del proprio agire. Essi inoltre vivono queste limitazioni proprie e dei genitori con grande svalutazione ed esprimono attraverso i sintomi la delusione e la rabbia riguardo al loro stato e al non sentirsi aiutati dai genitori a correggere la loro situazione. Nel gruppo i genitori provano ad affrontare i conflitti che sorgono tra le persone dentro e fuori la famiglia superando la paura e il senso di colpa che porta tutti i familiari a coprirli o addirittura negarli; e solo l’esplodere della patologia li scopre e costringe ad affrontarli. Frequentando il gruppo e diventando più consapevoli i genitori sperimentano relazioni più mature che permettono di far funzionare il gruppo e che possono essere trasferite all’interno della famiglia: è possibile mostrarsi deboli, fragili ed è anche concesso di sbagliare, ma allo stesso tempo è possibile chiedere aiuto e farsi aiutare. Tutto ciò contribuisce a ridimensionare il proprio sé e le proprie aspettative, a renderle più reali e raggiungibili, dando la stessa libertà anche ai propri figli. Fa proprio parte dei pazienti affetti da disturbi alimentari e patologie borderline essere minacciati da un Super-io persecutorio, minaccioso e punitivo, che può invece ridimensionarsi con la psicoterapia e con l’ascolto e la comprensione acquisita dai genitori attraverso la partecipazione al gruppo. Nelle interviste essi parlano di questi figli confusi perché mossi da spinte contraddittorie, che non han la forza per opporsi a loro (ai genitori) differenziandosi. Sono loro, i figli, a sviluppare la malattia per ottenere (il giusto) ascolto dai genitori e costringerli alla necessità di un cambiamento di progetto di cui nessuno era consapevole; alcune interviste mostrano chiaramente tutto questo percorso. Attraverso il gruppo, questi genitori possono trovare una nuova strada che consente di utilizzare la crisi che la malattia ha prodotto o evidenziato, promuovendo alcuni cambiamenti relazionali importanti. Siamo consapevoli che non potremo mai entrare così profondamente nelle relazioni di coppia e familiari che sono cambiate in seguito alla malattia o anche grazie alla malattia, ma abbiamo almeno aiutato queste persone ad utilizzare opportunamente la crisi evitando di esserne solo vittime insieme ai figli. Questi cambiamenti permettono di allentare le reti dinamiche nelle quali figli e genitori sono intrappolati affinché il percorso di crescita e maturazione dei figli e delle relazioni con loro possa riprendere più fluido. Per concludere, l’obiettivo iniziale di promuovere quei piccoli ma significativi cambiamenti di atteggiamento nelle relazioni che il metodo Balint classico si propone, sembra aver ottenuto risultati positivi all’interno di queste famiglie.
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Federica Menaldo è Medico Psichiatra, Psicologo Analista AIPA, socio conduttore di gruppo di AMIGB e IBF e attualmente Presidente di AMIGB. Ha lavorato in varie istituzioni psichiatriche pubbliche e centri privati. Lavora privatamente a Verona.
Email: menaldo05@gmail.com
Beatrice Dusi è dott.ssa in Psicologia Clinica dello Sviluppo presso l’università di Padova, iscritta all’Ordine degli Psicologi del Veneto, specializzanda presso la scuola di Psicoterapia psicoanalitica
Email: bd.psicologa@gmail.com