Diagnosi Globale, formazione dell’analista e gruppi Balint


Cesare Casati : estratto da “Giornale storico di Psicologia Dinamica”, vol XV – giugno 1991 – fasc. 30


 

L’attività fondante di ogni pratica psicanalitica è, come appare ovvio, la comprensione del paziente. Questo termine così spesso usato merita tuttavia qualche precisazione. Jaspers distingueva nelle pratiche conoscitive due possibilità: lo “spiegare” (erklaren) ed il comprendere (verstehen). Con il primo termine si intende il conoscere attraverso la raccolta dei dati di fatto, la ricerca delle loro relazioni ed il cogliere infine delle totalità. Si tratta del procedimento ben conosciuto per esempio dai medici che attraverso l’analisi dei sintomi, delle loro correlazioni, dei loro significati, possono giungere a diagnosticare delle malattie. I medici però hanno a che fare soprattutto con quello che i fenomenologi chiamano il “korper” e cioè il corpo materiale. Lo psicoanalista invece si confronta soprattutto con il “Lieb” del proprio paziente e cioè con il corpo vissuto. I vissuti sono dati oggettivi che solo indirettamente, attraverso la comunicazione verbale o metaverbale, possono essere presentificati all’osservatore. Questi fatti non possono essere spiegati nel senso indicato con “erklaren”, ma “compresi” come chiarito da Jaspers, in senso statico o genetico. Per “comprendere statico” si intende l’afferrare il vissuto in sé mentre per “comprendere genetico” si definisce l’immedesimarsi nell’altro per comprendere le relazioni psichiche tra i fatti riferiti, l’isolare e riunire i singoli fenomeni psichici presentati, il correlarli tra loro.

Come appare evidente questa “comprensione” non può avvenire se non attraverso l’identificazione e l’introspezione. Dobbiamo ammettere che tutta la nostra educazione, prevalentemente orientata a fondarsi sui dati scientifici, tende ad esaltare lo “spiegare” mettendo in ombra il “comprendere” come cosa che non necessiti di preparazione e da lasciarsi alle disposizioni individuali. Se ci si riflette si rischia di concludere che forse l’indirizzo generale cui si accennava è legato non ad un disinteresse per il “comprendere”, ma anzi ad un timore della sua vertiginosa complessità. Infatti, per esempio, qualsiasi sintomo medico, inteso come momento di una catena causale, che va dall’agente etiologico al processo patogenetico ed infine all’espressione morbosa è facilmente afferrabile ed ha un significato preciso. Un sintomo, invece, quando appare come espressione di un vissuto individuale, è molto più difficilmente coglibile ed inoltre è spesso proteiformemente polisemico. La presentificazione che ne fa il soggetto, se da una parte tende ad oggettivare un vissuto, può tendere, spesso inconsciamente, a richiedere e stabilire una certa relazione col curante, ad esprimere altri disagi da quello coscientemente riferito a modificare le proprie relazioni con l’ambiente circostante a volte persino a rappresentare in modo metaforico e simbolico una sottostante sofferenza psichica. Lo psicoanalista è tenuto a farsi carico di questa avviluppante complessità. In effetti in assenza di un’analisi che colga la totalità delle domande, risposte tecnicamente riuscite non possono che restare parziali e quindi sentite come insufficienti da uno dei membri del di-polo analista-paziente. Il sapere medico cui pur tanto dobbiamo, rischia di proporre anche nel nostro lavoro la potente diagnosi “per sintomi”, ma compito dell’analista è sottrarsi a questo fascino per cercare di attingere ad una conoscenza globale.

La diagnosi per sintomi infatti tende a distinguere aspetti singolari ed individuali dell’oggetto uomo. Ma ciò che viene separato fa parte di un tutto che non può essere trascurato. Le parti come tali non esistono, non possiamo reificare dei concetti interpretativi ed il tutto non è separabile dai suoi elementi. D’altra parte è pur vero che i grandi progressi scientifici degli ultimi due secoli riposano proprio su queste separazioni. Giunti al limite del conoscibile attraverso la parcellizzazione dell’oggetto, rimane compito dello psicoanalista confrontarsi con la totalità del soggetto umano. Questo compito non appare per nulla facile. Per capire infatti i sintomi di un paziente come momento di una catena di evidenziabili causalità, basta una corretta informazione. Voglio dire che per riconoscere la tosse come segno di sofferenza dell’apparato respiratorio, basta studiare un trattato di patologia medica. Se invece devo comprendere il sintomo presentatomi come segno di altro da sé e come mezzo di instaurazione e di controllo di una relazione, l’informazione non. basta più, poiché il sintomo non solo è polisemico ma camaleonticamente cambia di volta in volta i possibili significati. Non si tratta quindi più di registrare un fatto che si ripete con scientifica predicibilità, ma di cogliere una situazione continuamente. mutevole, nell’atto stesso del suo costituirsi. Questo procedimento si può basare essenzialmente su due meccanismi: quello dell’identificazione e quello dell’introspezione. Il mondo psichico dell’altro infatti non è immediatamente percepibile ed io per comprenderlo non ho altra possibilità che immaginare di trovarmi nell’altrui situazione e di leggere poi dentro di me i vissuti dando per scontato che i nostri comportamenti, legati dalla comune matrice umana, non possono essere troppo differenti. I limiti di questa modalità appaiono evidenti ma altrimenti non resterebbe che arrendersi all’incomunicabilità. La situazione è resa, se possibile, ancora più complicata dal fatto che spesso le intenzionalità dei due poli della relazione sono inconsce ai soggetti stessi. L’analista quindi si trova da una parte ad avere la necessità di continuamente presentificarsi a sé stesso, dall’altra a maieuticamente aiutare il proprio paziente a prendere coscienza delle proprie attese ed intenzioni. Questo lavoro non può essere inteso ingenuamente, come dai padri della psicoanalisi, come uno svelare una verità nascosta ma è una realtà che si costruisce nell’atto stesso in cui si disvela. Voglio dire cioè che ci si trova nella situazione che Winnicott descrive a proposito della relazione madre-bambino. Il bimbo grida attraverso il pianto le proprie necessità a lui stesso inconsce e compito della madre è dar forma e significato a questi bisogni a seconda della propria esperienza e della capacità di immedesimarsi. Tra i due si costituiscono così delle verità sicuramente relative alla loro coppia ma anche certamente molto efficaci. Per affrontare questo tipo di operatività è evidente che occorre una specifica e continua formazione. La ricchezza e la cangiante mutevolezza di tutte le possibili relazioni che si stabiliscono tra analista e paziente sono tali da richiedere una formazione insieme continua, aperta, flessibile. Deve essere continua per evitare nelle risposte dell’analista irrigidimenti stereotipati dall’abitudine, deve essere aperta per potersi arricchire di quanti più contributi possibili e flessibile per adattarsi ai cambiamenti stessi cui è soggetto l’analista nel proprio sviluppo personale. La stessa supervisione classica duale può essere in questa ottica potenzialmente limitante. Ritengo che a queste esigenze possano meglio rispondere i gruppi di formazione. Per formazione intendo lo sviluppo di specifiche, individuali abilità che rendano il soggetto idoneo ad operare in un determinato modo. La formazione chirurgica, per capirci, consisterà nell’attivare abilità chirurgiche mentre nel nostro caso dovrà mirare ad ampliare la nostra capacità di identificazione e di introspezione ma non solo. Dobbiamo infatti ammettere che nell’incontro tra due persone si stabiliscono due tipi di comunicazione, una verbale che potremmo definire più di tipo intellettivo mediata dalla parola ed una di tipo affettivo mediata più dagli atteggiamenti, i toni, i movimenti mimico-gestuali. Mentre la comunicazione verbale può essere confusiva e mendace, quella affettiva, in quanto più primitiva, istintiva e tendente all’analogico e al metaforico, avvicinandosi di più al processo primario insomma, non riesce a negare se stessa e quindi è tendenzialmente più veritiera. La “comprensione” vera è quindi soprattutto una comprensione affettiva e la nostra capacità di “risonanza emotiva” lo strumento di comprendere. Ecco quindi un’altra abilità da sviluppare. Se ci si pensa è proprio il contrario di ciò che siamo abituati a fare. In genere tendiamo a coartare le nostre risposte emotive come possibilmente disturbanti per poi finire spesso per fornire risposte chiaramente indotte o alterate proprio dall’affettività pregiudizialmente tenuta a freno.

I gruppi di formazione clinica secondo la modalità Balint che si è andata codificando a partire dalle osservazioni e dalla pratica del suo fondatore, affrontano proprio questo aspetto del “comprendere” affettivamente l’altro. Dato che la dizione “gruppo Balint” rappresenta oggi un coperchio che copre molte pentole, ritengo di dover esplicitare chiaramente a che cosa io mi voglio riferire. Mi richiamo dunque ad un piccolo gruppo (8-12 partecipanti), rigidamente eterocentrato, condotto da uno psicoanalista, con durata e cadenze predeterminate (in genere 90 minuti e frequenza settimanale). Il numero dei partecipanti è studiato per evitare nel limite del possibile la formazione di sottogruppi ma anche per garantire un sufficiente apporto di contributi. L’eterocentratura consiste nel fatto che il gruppo non discute su problematiche personali, ma su di un caso riferito da uno dei partecipanti ed attinente ad una relazione stabilita in una situazione esterna. L’eterocentratura è finalizzata ad allontanare le dinamiche tensiogene proprie dei gruppi psicoterapeutici. La durata e la cadenza predeterminate servono a definire un setting che è fondamentale per compattare il gruppo. Infatti un gruppo si costituisce proprio quando degli individui si trovano discorsivamente a vivere insieme le stesse situazioni (per es. il gruppo dei tifosi è costituito da coloro che si trovano ritualmente negli stadi, etc.). I partecipanti sono invitati, senza preventiva preparazione, a riferire a turno un proprio caso. La richiesta di non prepararsi mira a rendere la comunicazione quanto più genuina possibile e quanto più aderente non tanto ai contenuti materiali quanto a quelli affettivi. L’attenersi ad un caso limita l’inflazionante ed infantile pretesa di cogliere troppo in troppo poco tempo. Il presentatore del caso una volta terminato il proprio racconto, non può più intervenire, mentre sono sollecitate tutte le osservazioni degli altri componenti del gruppo. L’accettazione della frustrazione collegata all’impossibilità di interloquire è un potente metodo di allenamento all’ascolto, così necessario nel rapporto col paziente e non sempre rispettato. Il leader infine guida i partecipanti ad accettare, in una situazione assolutamente paritaria, ogni e qualsiasi osservazione, nel convincimento che in ogni contributo si svela o forse si nasconde un briciolo di verità. Abbiamo infatti detto che comprendere è in essenza costruire una comune conoscenza ed il gruppo offre una tangibile occasione per assistere alla condivisa costruzione di un possibile significato della relazione descritta, attraverso una sorta di “democrazia delle prospettive”. La discussione del testo non dovrà infatti esitare nella scoperta di una verità nascosta ed infine svelata, ma nel permettere a tutti di offrire la propria “comprensione” del racconto, attraverso il gioco delle plurime identificazioni, viste come mezzo per un’ermeneutica possibilmente infinita, che non ha la pretesa di una definitiva ed annientante “spiegazione” ma il desiderio di una illuminazione ricca, anche se parziale, cui ognuno offre un vertice affettivo che quindi non può essere né giusto, né sbagliato ma solo “particolare”. Il gruppo permette quindi di imparare in una situazione difesa e protetta quale potente strumento sia la partecipazione affettiva per poter capire l’altro. Infine il leader tenderà a ricomporre in una totalità significativa i singoli contributi, cercando di attingere ad un massimo comune denominatore che li comprenda tutti e che insieme vada alla radice affettiva della relazione descritta nel caso. Il leader dunque fa da catalizzatore di una visione di gruppo che va relativizzata a quel gruppo, in quel momento, nella tranquilla accettazione che altri gruppi avrebbero potuto costruire visioni diverse ma complementari, mai escludenti in quanto semplicemente frutto di prospettive affettive diverse. Il gruppo diventa così una eccezionale palestra per l’esercizio di una “democrazia delle prospettive affettive”, che sarà momento assolutamente propedeutico al realizzarsi di un paritetico e partecipe incontro con il paziente. In questo senso il gruppo mi sembra addirittura più efficace della supervisione duale che non offre la possibilità dell’evidenziarsi di una pluralità di visioni e quindi di possibilità interpretative potenzialmente integrante. Ma il gruppo mi pare insegni qualche cosa ancora. Una volta “compreso” il paziente nel modo descritto, ci troviamo davanti alla difficoltà di farci capire. Il gruppo, dove possiamo sperimentare in situazione difesa e protetta come a volte sia difficile essere capiti dagli stessi colleghi, ci insegna a tollerare la frustrazione connessa alla non totale comunicabilità che è propria degli esseri umani. Imparare ad accettare serenamente questo limite eviterà che nella relazione col paziente entri la violenza del voler esser capiti a tutti i costi che rischia di spingerci a prevaricare l’altrui realtà  e ad attivare invece che a ridurre le difese dei nostri clienti. Infine il gruppo Balint nella forma descritta finisce per avere una funzione di equilibratore emotivo che in qualche modo ricorda quella del sogno. Credo che questa mia osservazione necessiti di essere chiarita. Ci sono pochi dubbi che il sogno possa essere letto come una comunicazione iconica metaforica. L’essenza di ogni metafora è quella di mantenere intatta la relazione illustrata, mentre sostituisce i termini della relazione con cose o persone diverse. Il sogno ripete metaforicamente situazioni di rapporto particolarmente importanti per il soggetto, talora ripetendole tali e quali (anche se attraverso la deformazione metaforica), altre volte invertendole o modificandole quasi a segnalare altre possibilità relazionali. Io ora non intendo rifarmi alle interpretazioni classiche freudiane o junghiane circa il sogno, ma voglio solo notare che il sogno ha una dimostrata azione equilibratrice della vita psichica dell’uomo. Infatti, inibendo questa fase del sonno, possiamo indurre serie e proprie psicosi. Dunque ciò che mantiene il nostro equilibrio è la possibilità di rivivere le relazioni che ci hanno colpito nella vita da svegli talvolta analizzandone, anche se attraverso il processo primario, le differenti possibilità di rapporto. Anche nel gruppo l’analisi è fondata sulla relazione e non sui suoi termini. L’interesse non è centrato sulla vita psichica dell’analista o quella del suo cliente, ma sul tipo di relazione. Chi ascolta il caso non può che rivivere la relazione descritta identificandosi volta per volta in uno dei poli della relazione. Man mano gli interventi rischiarano da diversi vertici affettivi il rapporto, ognuno non potrà che rivivere la situazione, scoprendo altre arricchenti prospettive relazionali. Le comunicazioni avvengono nel gruppo secondo il processo secondario ma innescano meccanismi emotivo-affettivi che sembrano attivi proprio ed anche nel sogno. Ritengo che a questi fatti possiamo attribuire l’azione catartica che spesso i partecipanti ad un gruppo Balint esperimentano ed i piccoli e significativi cambiamenti personali che lo stesso Balint già segnalava nei frequentatori dei suoi gruppi.

 

Cesare Casati
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