È possibile un’estensione del metodo ad altri contesti operativi?
Il contributo di Augusto Ferrari

Augusto Ferrari, specialista in Cardiologia, Primario Medico Emerito Ospedale di Saronno, Presidente e leader accreditato dell’AMIGB, è stato particolarmente stimolante per tutti i partecipanti ai gruppi guidati da lui o da S. Rusconi. Molti hanno aderito portando la propria testimonianza di un lavoro di sensibilizzazione e/o di formazione come Leader di un GB nel proprio contesto lavorativo.

In risposta al quesito esistente: “È possibile un’estensione del metodo ad altri contesti operativi?”, i contributi raccolti in questo libro ce ne offrono una conferma. Si tratta di GB attivati in ospedale, nei Servizi sociali, con infermieri ed operatori psichiatrici… etc.

L’edizione di ‘Tra sapere e capire’ pubblicata nel 2001 è stata curata dallo stesso dott. Augusto Ferrari.

 

 

Segue l’introduzione del libro arricchita delle nuove esperienze di Gruppi Balint condotti in Italia dai soci di AMIGB, partecipanti al gruppo condotto da S. Rusconi.

Introduzione
(note tratte dal testo a cura di Ferrari)

I “professionisti dell’aiuto”, a qualunque categoria appartengano – assistenti sociali, educatori, infermieri, insegnanti, medici, psicologi- (ossia tutti coloro che si trovano a dover gestire un rapporto impari, sbilanciato, tra chi chiede aiuto, e si trova in posizione down, e chi è disponibile a darlo e si trova in posizione up), forse più di altri sentono il bisogno di uno strumento psicologico adeguato alle necessità emergenti dall’impegno quotidiano.

Nelle “professioni d’aiuto” la persona-operatore, incontrando la persona-paziente, determina uno scambio di parole, gesti, pensieri, emozioni (sempre importante e determinante per lo svolgersi dell’impegno professionale), che rende necessaria, oltre all’indispensabile conoscenza tecnica, una formazione psicologica, utile per promuovere una maggiore comprensione della propria personalità e addestrare alla disponibilità empatica.

Comunicare e trasmettere un’integrazione tra la tecnologia che pervade la cultura dei nostri tempi e l’addestramento alla dimensione relazionale, necessita l’acquisizione di particolari e sicure competenze.

Ecco, a titolo esemplificativo, alcuni contesti professionali ove il rapporto interpersonale si configura sbilanciato.

  • Nella pratica medica quotidiana la mentalità corrente, centrata prevalentemente sull’efficienza, sulla rapidità, sulla sicurezza del risultato e sulla potenza dei mezzi diagnostici, contrasta con la richiesta sempre più diffusa, ma disattesa, di un’“umanizzazione” delle prestazioni socio-sanitarie.

“Non è forse vero che nelle mani di un medico esclusivamente tecnico il malato corre il rischio di ridursi ad un oggetto sul quale il medico agisce strumentalizzandolo, magari a fini suoi propri, così come farebbe con una macchina? E non è questo in sostanza quello che gli ammalati dicono quando affermano che vengono trattati con freddezza, senza calore umano, con indifferenza, senza un interesse sincero per i loro problemi personali, quando sostengono che nessuno li sta ad ascoltare, che non sono compresi, nono aiutati efficacemente a superare i dubbi, le ansie, le sofferenze, le reazioni psichiche incontrollate, i comportamenti irrazionali dannosi per la loro salute fisica e mentale, le demoralizzazioni, tanto importanti per loro e per il loro destino?” (A. Selvini)

Il paziente, nonostante il progresso tecnico, non sempre trova ciò di cui ha bisogno e il medico è spesso insoddisfatto, talora annoiato, indotto a ricorrere, sul piano umano, a sterili meccanismi difensivi, privi d’efficacia terapeutica. Curare il fisico ignorando la psiche, non curare l’uomo intero, è disumano, peggio: è disumanizzante.

  • Gli infermieri, specie in ospedale sono parte integrante e insostituibile sia del momento diagnostico che del momento terapeutico. Anche per loro l’esigenza di una formazione psicologica, di un addestramento al rapporto interpersonale è vivamente sentita. E’ un fatto, che può essere accettato o negato, cui si può credere o non credere; il fatto comunque resta. Sono in un rapporto con gli ammalati molto più diretto e più prolungato di quello dei medici; la loro presenza, di giorno e di notte, il loro contatto anche fisico, inteso a soddisfare i bisogni più elementari, è accompagnato da un’intensa carica emotiva. Abitualmente sono aperti e disponibili per un contatto umano con il malato, ma la loro disponibilità e la buona volontà non bastano. Le situazioni altamente emotive che spesso si vengono a determinare nel lavoro ospedaliero sono difficili da sopportare e da sostenere se non ricorrendo a irrigidimenti e a distorsioni della propria personalità a carattere difensivo.

Anche l’incontro con i parenti degli ammalati è vissuto dal personale infermieristico più direttamente e più intensamente che dal medico stesso.

Gli infermieri si trovano così ad avere un ruolo spesso ambiguo: sono più facilmente raggiungibili dai parenti ma sono spesso visti come un prolungamento del corpo medico di cui condividono il potere. Dai medici invece sono talora considerati solo come bravi esecutori di direttive. Ne conseguono sentimenti di frustrazione e d’insoddisfazione, dannosi sia per l’equilibrio emotivo del singolo che per il buon andamento del lavoro.

  • Un’esigenza di formazione è spesso avvertita in modo drammatico dall’insegnante e dall’educatore che ha fatto di tutto, si è preparato, ha studiato e si accorge quanto sia difficile cercare di comprendere e tollerare la delusione data dagli scarsi risultati.

Nel rapporto con l’allievo e con il gruppo di allievi, la classe, l’insegnante si trova ad avere a che fare con un insieme di aspetti emotivi ed affettivi di fronte ai quali egli agisce e reagisce con un proprio stile personale basato prevalentemente sulla risposta spontanea, tipo a corto circuito. Questo metodo non sempre si rivela il più appropriato.

Capita spesso di sentire insegnanti, educatori, parlare del loro disagio ad insegnare e della loro difficoltà a farsi intendere dagli allievi, specialmente se problematici, difficili o handicappati.

Come affrontare questa difficoltà? L’insegnante spesso spera che la didattica, la pedagogia e la psicologia siano la chiave per riuscire, immagina che questa o quella teoria o anche la propria esperienza diano delle certezze, ma poi, nella realtà, nonostante ciò, si ritrova con un allievo che non partecipa, non comprende quanto trasmesso.

L’insegnamento è una professione che necessita di una duplice competenza: la prima è quella connessa alle conoscenze specifiche della materia, la seconda, più complessa, è quella che attiene alla sfera del saper trasmettere informazioni e nozioni degli allievi. Tutto ciò può essere acquisito ed espletato solo in un ambito relazionale.

  • Colpisce come, in un contesto sociale ove viene richiesto un addestramento specifico e un documento che ne attesti la validità per la conduzione di un automezzo, non vi siano proposte per inserire nella formazione dei giovani una preparazione adeguata per il futuro compito dei genitori. Compito che richiede, oltre ad un bagaglio di conoscenze particolari, l’adozione di responsabilità e impegni assai più complessi. Genitori-generatori si nasce, ma genitori-educatori si diventa. Nessuno, infatti, nasce maestro nell’arte di educare i propri figli: un’arte a volte entusiasmante, sovente deludente, sempre inquietante.

Che fare allora, visto che nessun corso tradizionale di psicologia ci può mettere al riparo da fatiche e fallimenti? Per assolvere alla meno peggio questo compito non basta capire il bambino, ma occorre conoscere e capire se stessi. Generare psicologicamente è difficile e complesso. Non dipende tanto da un’azione esterna quanto dall’incontro tra esseri umani e dall’interazione delle loro componenti affettive ed emotive. La complessità delle relazioni umane è al di fuori dal controllo diretto degli schemi biologici, è imprevedibile, si struttura nella più tenera età ed è correlata al gioco dei sentimenti e delle emozioni. Le idee, per quanto buone, non possono essere trasformate in esperienza, soltanto l’esperienza può generare una nuova esperienza. I genitori “professionisti dell’aiuto”, infatti, si sono dimostrati talora più degli altri impacciati nel gestire il rapporto con i loro figli.

  • Il fenomeno volontariato (ulteriore ambito in cui si realizza una modalità d’aiuto) negli ultimi decenni sta cambiando volto e stile operativo: si è passati da una visione puramente ‘riparatoria’, basata sul binomio assistenza-beneficenza, ad una visione ‘liberatoria’ incentrata sulla ricerca e rimozione delle cause provocanti il disagio.

Il modello di volontariato con connotazione ’riparatoria’ si è posto e si pone accanto al sofferente con la finalità di contenere e di ridurre il dolore, puntando fortemente sulla generosità e sullo spirito di carità delle persone; quello di tipo ‘liberatorio’ vuole andare oltre: rimuovere la causa che sta alla base della sofferenza puntando ad un salto culturale.

Questo, in concreto, significa saper mettere in discussione il sistema che provoca la sofferenza partecipando ….con una propria politica, che abbia a fondamento la solidarietà e sia voce di coloro che credono nel bene e nel buono e soprattutto di chi oggi non ha voce: i bisognosi di aiuto (malati, poveri, sofferenti).

La povertà e la sofferenza mutano, i bisogni del destinatario del nostro servizio cambiano. Per fare il bene oltre il cuore serve l’intelligenza, il metodo, perché un bene fatto solo perché gratifica noi stessi, senza sapere a chi è diretto, può cronicizzare il male.

Questi pochi cenni sulle difficoltà e sull’impegno presenti nell’espletamento di alcune professioni d’aiuto (non vi sono sostanziali differenze con altre professioni, come quelle degli assistenti sociali, degli psicologi, dei riabilitatori…etc.) confermano l’utilità e l’indicazione di un percorso formativo psicologico.

Sono numerose le iniziative intraprese nel tentativo di dare una risposta a questo problema, per lo più interessanti e ricche di spunti innovativi, però in gran parte inadeguate a soddisfare la richiesta.

La nostra proposta operativa, i “gruppi di formazione secondo il metodo Balint”, si avvale dei presupposti e delle conoscenze della psicologia analitica che ha fatto negli ultimi anni notevoli progressi.

La dimensione psicologico-relazionale, non può comunque essere limitata ad una teoria o ridotta ad uno schema. Non è insegnabile, è insita nella stessa natura dell’attività professionale. Va riscoperta e ricoltivata.

Ha un’originalità sua propria che la contraddistingue da tutte le altre relazioni personali e professionali, per cui può costituire di per sé un oggetto di studio.

La ricerca, nata e sviluppata nel contesto psicoanalitico, ha preso corpo a se stante approfondendo lo studio clinico dell’interazione tra chi è portatore di una qualsivoglia sofferenza e chi è deputato a prestare aiuto. Interazione complessa, in parte conscia e in parte inconscia, a sua volta soggetta all’influenza dell’ambiente in cui si verifica.

L’essenza di questa formazione non la si troverà sui libri, per quanto eccellenti e pratici, ma va acquisita sul terreno.

Print Friendly, PDF & Email