Maria Iole Colombini

                                                                                           Quando un medico prescrive un farmaco,
                                                                                            prescrive se stesso. (M. Balint)

La funzione di curare/assistere una persona che chiede cura/assistenza implica nel curante non solo la consapevolezza di possedere un’abilità, dettata dalle competenze e dall’addestramento, ma anche l’essere facilmente oggetto di ammirazione da parte dell’assistito. Qualora questa figura, che ricopre una posizione di superiorità attribuibile per il ruolo, non sia in grado di riconoscere tale meccanismo, che inevitabilmente alimenta le sue componenti narcisistiche, rischia di cadere nella trappola di ‘sentirsi’ realmente superiore. In tal caso questa percezione non favorirà la sua capacità di insight rispetto alle emozioni indotte nella dimensione relazionale con la persona che chiede, né alimenterà le sue risorse di empatia. L’idea che la sopravvalutazione del ruolo che facilmente accompagna l’esercizio di una professione possa implicare uno scarso riconoscimento degli aspetti emotivi in cui il professionista è coinvolto è presente nelle opere di Ferenczi. In riferimento alla funzione dello psicoanalista, egli ha sottolineato l’importanza dei fattori relazionali e della partecipazione affettiva del terapeuta nel processo di cura. Adam Phillips ricorda che fu Sandor Ferenczi a smascherare la funzione difensiva della professionalità in psicoanalisi e l’atteggiarsi che può accompagnare l’esercizio di una professione (Philips, 1995).
Balint, analizzando di Ferenczi, ha esteso queste riflessioni sulle modalità di approccio dei medici, in possesso di una disciplina scientifica, con i loro pazienti. Vale a dire che il medico curante, non dovrebbe limitarsi a comunicare con il malato che chiede attenzione e cura basandosi esclusivamente sulle sue competenze e sull’esperienza clinica, la ‘scienza’, ma dovrebbe mettersi in gioco come persona. Balint si rendeva conto della scarsa utilità di lezioni teoriche o di incontri di supervisione mirati a fornire ai medici crediti nel loro ambito professionale. Secondo la sua prospettiva, per il medico nell’interazione con il suo paziente non si tratta esclusivamente di individuare l’origine del sintomo, di definire una condizione di malattia e l’eventuale trattamento, ma di ‘parlare con’ il paziente, in quanto persona che chiede aiuto. In base a tali riflessioni, Balint aveva intuito che l’addestramento e l’apprendimento per i medici risultavano più efficaci utilizzando la libera discussione su situazioni concrete, centrata sull’interazione avvenuta tra due persone: il medico e il suo paziente.
Verso la fine degli anni ’40 il Ministero della Sanità inglese, che stava varando il Servizio Sanitario Nazionale, chiese a Michael ed a Enid Balint di fornire ai medici generici una formazione psichiatrica per compensare la grave carenza di specialisti della salute mentale. Al fine di sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali riconoscibili nelle loro interazioni con i pazienti, Balint propose un addestramento tramite il lavoro in piccolo gruppo etero-centrato, dove la discussione si avvaleva dei casi clinici portati a turno dagli 8-10 partecipanti che si riunivano, per un periodo di due-tre anni, settimanalmente per un’ora e mezza circa. La funzione formativa si avvaleva dell’atmosfera di libero scambio in cui ognuno poteva presentare i propri problemi o dubbi nell’esercizio del ruolo con l’aspettativa di riuscire a chiarirli attraverso la partecipazione e il contributo dei colleghi nell’esperienza di gruppo. L’esperienza clinica di Balint e, successivamente della moglie Enid, che utilizzò il metodo con altre categorie di professionisti, come gli assistenti sociali, ha confermato la validità formativa per il ‘curante’ della dimensione dell’ascolto, nella sua duplice declinazione di ascoltare ed essere ascoltati.
In un episodio del film “Caro diario” viene rievocata la vicenda clinica personale del protagonista –impersonato da Nanni Moretti- che, per l’insorgenza e il perdurare di un malessere fastidioso, aveva dovuto richiedere il consulto a molti specialisti, prima di arrivare ad avere la certezza di essere ‘ascoltato’. Con la sua interpretazione l’attore sembra trasmetterci questa verità: “i medici sanno parlare però non sanno ascoltare”.
Grazie all’intuizione di Balint, negli anni ‘60 i medici hanno iniziato a formarsi addestrandosi ad ‘ascoltare’ il paziente secondo un modello consolidato grazie all’esperienza dei gruppi di sensibilizzazione da lui condotti con ruolo di leader. Nel piccolo gruppo i partecipanti delle prime esperienze di Gruppi Balint (GB) si lasciavano raggiungere dalle parole che portavano dentro di sé l’emozione dei loro incontri con l’altro: la persona malata.

La sensibilizzazione di chi ha un ruolo di curante
I singoli individui tessono tra loro legami complessi, profondi e dinamici grazie alla costante oscillazione tra livelli inconsci, irrazionali, legati alla dimensione somatica ed altri livelli consci, razionali. I movimenti di scambio, confronto, condivisione tra più persone si possono riconoscere nel loro svolgersi, poiché, in una dimensione ristretta, il gruppo rappresenta la società in cui si vive e si opera, e in esso si costituiscono tutte le dinamiche che si possono instaurare nella vita di tutti i giorni. Alcuni autori che hanno approfondito le dinamiche di gruppo, hanno affermato che le emozioni che sul piano individuale paiono impensabili ed intollerabili, nel contesto di gruppo possono acquisire un significato attraverso il pensiero analogico, metaforico e nella facilitazione della generatività del pensiero mitopoietico (Corrao, 1993-Neri, 1998). E’ noto infatti come nella psicoterapia psicoanalitica di gruppo i parametri dei singoli vengano ripensati nei termini di una mente di gruppo che, secondo modalità specifiche, crea le condizioni per favorire una trasformazione delle emozioni. Un processo che possiamo osservare anche in contesti di gruppo che non hanno una finalità di trattamento e che sono costituiti da professionisti che svolgono un ruolo simile in istituzioni di cura (si intendono i gruppi omogenei). Lo stare insieme si presta infatti tramite il confronto tra i partecipanti all’obiettivo della formazione. Ci si può infatti addestrare a riconoscere ed a capire la complessità dei fenomeni emotivo-affettivi che coinvolgono due figure che si trovano in una posizione asimmetrica nel senso di chi chiede e chi risponde alla richiesta. Nelle situazioni in cui ad una figura con un ruolo professionale (medico, infermiere, assistente sociale…) un aspirante assistito richiede un’attenzione o una cura, le dinamiche, i vissuti, le risposte affettive/emotive avvenute tra loro possono essere osservate e riconosciute successivamente nel contesto di gruppo.
A seguito dell’intuizione di Michael Balint e di sua moglie Enid Flora Eichholz e della loro esperienza, il gruppo Balint ha iniziato a rappresentare un metodo molto diffuso per la formazione psicologica del medico rispetto alla relazione con il paziente. Nella sua forma classica, il GB è composto da medici (generici e specialisti vari) che, con la conduzione di uno psichiatra di formazione psicoanalitica, discutono di quei casi della loro pratica professionale che sono stati causa di difficoltà nell’interazione col paziente o hanno lasciato nell’operatore qualcosa di insoluto a livello emotivo o affettivo.
Il clima di calore e di sostegno che si sviluppa favorisce il confronto tra i partecipanti nell’esperienza comune di gruppo dove si viene a creare uno spazio simbolico in cui si comunica prevalentemente per analogie ed associazioni ed i partecipanti, attraverso il confronto reciproco, possono mettere in discussione le loro sicurezze e posizioni preconcette. Questo tipo di sensibilizzazione esige una partecipazione emotiva ed un investimento affettivo che favoriscono una nuova capacità di ascolto e migliora l’empatia rispetto alle emozioni dell’altro.
Le dinamiche caratteristiche del gruppo si rifanno ai temi principali della psicoanalisi: la relazione d’oggetto, la relazione tra due persone come equivalente dell’amore primario, i fenomeni d’induzione di vissuti del gruppo da “apprendimento primario” a quello “secondario”, il transfert, il controtransfert e il processo d’identificazione. Ogni storia-situazione narrata diventa parte del gruppo e ognuno se ne fa carico, secondo le proprie modalità aggiungendo il proprio sguardo, il proprio punto di vista, a quello degli altri. Si può affermare che il gruppo funziona, a livello formativo e trasformativo, quando ‘accade’ che il portatore del caso o gli altri partecipanti siano attraversati da pensieri mai pensati.
Il metodo
Il lavoro del gruppo si struttura a partire dal racconto di una ‘vignetta’ portata in discussione da parte di un partecipante. Terminata la presentazione, gli altri membri del gruppo che lo desiderano possono intervenire ponendo domande, formulando ipotesi, esprimendo pareri e considerazioni. Poi il leader apre la discussione della vignetta da parte dei partecipanti, che iniziano ad esprimere i loro pensieri secondo un ordine spontaneo di attivazione. La discussione dura 90′.
Il lavoro del gruppo è guidato dal conduttore il quale, attento alle interazioni tra i partecipanti e tra lui ed il gruppo stesso, svolge la funzione di centrare la discussione sull’interazione tra chi ha richiesto aiuto e chi avrebbe dovuto accogliere empaticamente la richiesta. Nella dimensione di gruppo si attiva l’approfondimento delle dinamiche relazionali tra chi si trova in una posizione di agente con delle competenze (medico, operatore in professioni di aiuto) e una persona che richiede un ascolto, una cura, un’attenzione. Nel piccolo gruppo le emozioni, i sentimenti ed i vissuti, rievocati dalla memoria del partecipante che presenta la vignetta, vengono riproposti ai colleghi per un’elaborazione condivisa. Il pensiero del gruppo si articola sulla riflessione su quale è stato lo scambio emotivo tra le due figure o sulle emozioni, i pensieri della persona il cui consulto è richiesto, che hanno impedito o bloccato il riconoscimento e l’accoglienza dell’esigenza dell’interlocutore richiedente. In altre parole, nel gruppo ci si chiede perché nell’interazione descritta le risorse empatiche dell’agente di cura non siano state attivate dall’ascolto delle parole del richiedente.
Il lavoro nel GB consiste nell’approfondimento del controtransfert manifesto (Balint, 1957) dell’operatore analizzabile attraverso le modalità dell’interazione, sia a livello consapevole che inconsapevole, riportata nella vignetta. Per questo approfondimento sulla relazione tra i due soggetti è prevista la riflessione sulle modalità di scambio, espresse tramite parole, gesti, emozioni. In tal modo, grazie al pensiero di gruppo, il medico, tenendo conto del punto di vista altrui, ha l’opportunità di riflettere sulla propria esperienza e di riorganizzarla.
Balint, infatti, oltre la tecnica della terapia attiva ha introdotto ulteriori elementi di conduzione per il leader: l’operatore viene aiutato a focalizzare con la tecnica del “flash” la richiesta d’aiuto del paziente e la problematica profonda che sottende tale domanda (Agresta, 2005). La terapia focale in cui si interpretano solo i sintomi, i sogni, i conflitti attinenti la richiesta di ascolto.
Nel gruppo, le storie dell’uno si intrecciano per processi analogici con quelle dell’altro non sommandosi, ma permeando ciascuno in modo differente.
I processi fondamentali che favoriscono nel gruppo un arricchimento per ogni partecipante sono l’identificazione ed il distanziamento. E’ compito del leader stimolare i partecipanti a mettersi nei panni nell’uno e nell’altro attore della vignetta. Il gruppo offre la possibilità di ‘osservare’, secondo modalità specifiche e originali dei singoli partecipanti, l’interazione offerta alla discussione. Identificandosi ora con l’assistito, ora con il medico, i membri del gruppo divengono essi stessi più consapevoli del proprio modo personale di sentire e di pensare nel corso dell’esercizio della propria attività professionale. Sta al singolo quindi identificarsi o distanziarsi dalle riflessioni che emergono nel gruppo, tenendo conto dei personali orientamenti. Tale esperienza condivisa nel gruppo può aiutare i suoi membri a migliorare l’ascolto degli aspetti insoluti che emergono in diverse ed analoghe situazioni (si tratta di un gruppo omogeneo) in cui si trovano coinvolti per il loro ruolo professionale. La finalità del gruppo non è mirata a risolvere le problematiche relative ai singoli casi (compito che spetta ai partecipanti nei loro personali contesti di attivazione), ma di usare la vignetta presentata alla discussione per un addestramento pratico alla relazione.
Il gruppo Balint facilita questo processo di conoscenza e di esplorazione della dimensione affettiva nel rapporto tra chi cura e l’assistito. Si può sottolineare che nel GB esistono tre rapporti distinti ma allo stesso tempo compresenti e relati fra loro: il rapporto tra l’operatore e il paziente o assistito, il rapporto tra il leader e il gruppo di formazione, il rapporto tra il portatore del caso e il gruppo. Le dinamiche all’interno del gruppo tra il leader e l’insieme dei partecipanti si prestano in alcune occasioni ad essere lette come un’espressione dello stesso sistema, cioè della relazione che passa tra l’operatore e il suo paziente o assistito nella vignetta portata alla discussione.

Estensione dell’utilizzo del modello Balint
Operatori sociosanitari (infermieri, assistenti sociali, volontari) ed educatori (genitori, insegnanti, psicologi) si trovano spesso coinvolti in situazioni dense di disagi emotivi e incomprensioni con assistititi, discenti o pazienti. Si tratta di rapporti in genere basati su norme e gerarchie che si realizzano in contesti istituzionali diversi (ospedali, scuole etc.…). Tali professionisti dell’aiuto, per insicurezza e scarsa fiducia nel proprio ruolo che inducono sentimenti di inadeguatezza e frustrazione, sentono facilmente l’esigenza di uno strumento psicologico adeguato alle necessità emergenti dall’impegno quotidiano (Ancona e Minervino, 2004).. In diversi contesti lo stato di insoddisfazione ha indotto richieste, sia pure espresse a volte in modo confuso e ambivalente, di interventi psicologici come concreto aiuto ad affrontare sul campo situazioni intrise di risonanze emotive difficilmente gestibili. Si è individuato nel gruppo Balint un modello di intervento in grado di migliorare gli approcci di cura agli assistiti, realizzabili in diverse situazioni istituzionali. Nella sua accezione più ampia il GB rappresenta infatti un dispositivo che si presta all’addestramento al rapporto interpersonale per diverse tipologie di operatori coinvolti nel loro ruolo nei contesti istituzionali. Nella prospettiva di realizzare un’integrazione tra la tecnologia e l’addestramento alla dimensione relazionale si è arrivati a riconoscere come tale strumento possa fornire l’acquisizione di particolari e sicure competenze ai professionisti delle relazioni di aiuto. Negli ultimi anni le tecniche di gruppo hanno avuto un forte sviluppo e reso ancor più evidenti le specifiche funzioni formative di tale dispositivo (universalizzazione, risonanza emotiva, senso di appartenenza, etc.) e ricco di risorse per “aiutare chi aiuta”. In questi gruppi si pongono in primo piano i rapporti interpersonali, mentre i fattori tecnici specifici delle diverse categorie professionali rimangono sullo sfondo. Alla luce delle diverse esperienze, il piccolo gruppo etero-centrato ha iniziato nel tempo ad essere considerato uno strumento utilizzabile come un’estensione del modello classico; le ‘modificazioni’ o piccole trasformazioni che può favorire concernono l’oggetto, nei termini di capacità empatica di ascolto. La trasformazione si basa sulla possibilità che il percorso di sensibilizzazione in gruppo renda l’operatore più in grado di distinguere quanto le sue emozioni possono interferire nel rispondere ad una richiesta di aiuto e possa diventare più funzionale al bisogno espresso dell’assistito.
Per tutti i partecipanti si tratta di approfondire le modalità di scambio tra ‘chi chiede’ e ‘chi risponde’, soprattutto quelle emozioni che non hanno consentito un ascolto, cioè che hanno ostacolato lo svolgersi di uno scambio significativo tra due interlocutori. Il processo di formazione può essere inteso come apprendimento di modalità e capacità dirette al miglioramento delle proprie attitudini legate ad un ruolo specifico esercitato sia in un contesto istituzionale, sia in un ambito dove il ruolo ha un valore riconosciuto. In base al fatto che le emozioni, nel funzionamento umano e nelle modalità relazionali, sono costantemente presenti ed attive, seppure non sempre ad un livello di consapevolezza, i partecipanti possono arrivare, tramite il percorso di addestramento nel gruppo, a riconoscere le proprie difficoltà nel cogliere i segnali di richiesta di aiuto, di attenzione, di rassicurazione.

Esperienza di conduzione di un gruppo di genitori
Svolgendo l’attività di psicologa in una Pediatria, sede di un Centro di Endocrinologia dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ho avuto modo di trovarmi a contatto continuo con la sofferenza, il disagio di genitori che dovevano affrontare a livello emotivo la diagnosi di patologia cronica o di sindrome genetica di un figlio. I loro vissuti emotivi rispecchiavano diversi sentimenti come il senso di colpa, vissuto a livello inconscio, il forte impatto con la ferita narcisistica, in molti casi un sentimento di vergogna per la fantasia di essere falliti come ‘buoni’ procreatori, il prevedere per il figlio l’attribuzione di uno stigma da parte delle figure dell’ambiente extra-familiare. Nei colloqui individuali con la maggior parte delle coppie di genitori si poteva anche cogliere un vissuto di solitudine.
Ho iniziato ad ipotizzare che, per sostenere la genitorialità di tali coppie di genitori, condizionata in parte dalla diagnosi della patologia cronica del figlio, si potesse utilizzare il dispositivo del gruppo Balint. Anche ricerche in ambito psicosomatico (Biondi, 1991) hanno dimostrato che nel gruppo, come già nella relazione duale terapeuta/cliente, sono misurabili e verificabili cambiamenti strutturali e funzionali del sistema nervoso attraverso lo strumento terapeutico della parola e della relazione (psicoterapia verbale). Ho condiviso con i colleghi del gruppo di formazione l’aspettativa che, tramite il gruppo, contenitore di sentimenti confrontabili e condivisibili, i genitori avrebbero potuto diventare più disponibili all’ascolto di se stessi e dei loro figli e più consapevoli delle risorse personali, avendo l’opportunità di condividere il disagio e la sofferenza psichica. Tramite questa opportunità avremmo potuto valutare la capacità del gruppo di esercitare sui genitori quello che B. stesso chiamava un “mutamento importante ancorchè limitato” della personalità. Mutamento di atteggiamenti di empatia nei confronti dei figli, che non avrebbe implicato cambiamenti strutturali, in quanto il gruppo prevede l’analisi degli elementi che vengono agiti in modo inconsapevole nello scambio con l’altro ma si esclude l’interpretazione dell’inconscio.
Augusto Ferrari, cardiologo e formatore del GB classico, che ha utilizzato il GB come strumento di formazione, sottolineava come nell’interazione con l’’altro’ sia importante controllare il bisogno di agire per sentirsi all’altezza della situazione, imparando ad accettare il silenzio, a mettersi nei panni dell’altro e dei suoi bisogni impliciti. Egli cita questa riflessione di Buffoli: “Un momento di silenzio è il massimo onore che possiamo tributare a qualcuno; in quel momento tratteniamo le nostre parole, il nostro respiro, e cadiamo in silenzio cioè in quella più alta concentrazione in cui la nostra mente si ferma per dare spazio ai sentimenti più profondi” (Buffoli, 1994). Si tratta di saper “ascoltare ‘con il terzo orecchio’ nel senso che M. Balint attribuisce a questo termine, cioè osservare attentamente l’altro, lasciarlo parlare, dare credito alle comunicazioni, leggere tra le righe le richieste implicite” (Ferrari A., 2001). Nella mia esperienza clinica, nel rispetto del livello di consapevolezza e della comprensione raggiunti dall’insieme dei partecipanti, ho potuto come leader di gruppo riconoscere movimenti di trasformazione che si configuravano come formativi per i genitori, inseriti in contesti di gruppo in ospedale. I singoli genitori acquisivano una maggiore consapevolezza delle emozioni alla base dei loro atteggiamenti, a volte troppo educativi, altre poco rassicuranti e distaccati e si sentivano stimolati a migliorare la relazione con i figli. In presenza di una reciprocità nel gioco degli affetti e delle emozioni, da conquistare gradualmente, un genitore nel gruppo si forma infatti alla capacità di leggere, di vedere un poco più lontano nei sentimenti e nelle emozioni che entrano in gioco nel momento relazionale con il figlio e si mette in grado di ascoltare la sua richiesta a volte difficilmente comprensibile perché espressa in modo implicito.
La presenza, la regolarità e la ciclicità degli incontri si inscrivono nella mente dei genitori come un rassicurante contenitore che consente di affrontare le emozioni senza negarle o esserne travolti.

Illustrazioni cliniche
La discussione e il confronto nel gruppo di formatori, che per anni si è realizzato grazie alla conduzione del dott. Rusconi, ha funzionato da cassa di risonanza sull’esperienza di gruppo con i genitori e sulle piccole modifiche negli atteggiamenti dei genitori nei confronti dei figli malati e di conseguenza nelle modalità di rapporto con loro.
Per rendere più accessibile le modalità di funzionamento di un GB intendo portare qui un paio di sessioni di gruppo con genitori che hanno figli affetti da patologie croniche. Tali gruppi, patrocinati da associazioni di famiglie che hanno bambini affetti da differenti patologie, si svolgono in ospedale e sono condotti da due psicologi, una consulente del servizio di psicologia del reparto di Pediatria e una psicologa tirocinante di una scuola di specialità.
Gruppo di genitori con figli affetti da disordini nella differenziazione dello sviluppo sessuale (DSD)
I soggetti affetti da DSD presentano sindromi differenti (Klinefelter, Ipospadia, Ipertrofia Clitoridea Congenita, disgenesia gonadica…) di origine genetica o altri disordini nella differenziazione sessuale. Per alcuni, la presenza di genitali atipici alla nascita può indurre nel neonatologo un’attribuzione di genere che viene successivamente modificata. Nel percorso di crescita di questi lo sviluppo puberale e sessuale ha un ritmo e dei tempi influenzati dalla sindrome ed in alcuni casi anche lo sviluppo dell’identità sessuale o di genere può risultare problematico. I genitori vivono il rapporto con i figli con tali caratteristiche condizionato dai vissuti per la condizione clinica, definibile come malattia rara, che coinvolgono in modo perturbante il loro equilibrio, la qualità di vita, la fiducia di poter svolgere in modo adeguato la funzione genitoriale. La condizione clinica dei loro bambini o adolescenti occupa costantemente i loro pensieri ed in certe situazioni può influenzare pesantemente la comunicazione con loro.
Il progetto di intervento psicologico prevedeva 6 incontri di un’ora e mezzo ciascuno per un gruppo formato da 3 coppie di genitori e 3 mamme single. Le tematiche affrontate nel gruppo riguardavano soprattutto le difficoltà di rendere i figli consapevoli della loro condizione clinica e degli eventi chirurgici cui alcuni erano stati sottoposti da piccoli e di altri correttivi che avrebbero dovuto affrontare prima della pubertà. In altre parole, si tratta di genitori che vivono con un alto livello di ansia la possibilità di rivelare ai figli la loro storia, in particolare quella legata agli interventi clinici che riguardano la chirurgia correttiva dei genitali nei primi anni di vita, il significato dei controlli regolari nell’area dei genitali nel corso della crescita, la preparazione agli interventi in fase puberale per una correzione mirata alla normalizzazione. Per questi bambini il silenzio sugli eventi clinici (chirurgia correttiva dei genitali) e sulla storia clinica può indurre una frattura della continuità del sé e rappresenta un rischio di strutturazione di un disagio nell’adolescenza (D’Alberton, 2004).
Vignetta. La mamma di Anna, una ragazzina di 11 anni per 3 sessioni di gruppo non è stata partecipativa, sedeva tutto il tempo con una postura rigida, lo sguardo un po’ arroccato, tendeva ad evitare il contatto visivo, mentre le mani si muovevano in continuazione, denotando tensione. Nelle prime sessioni del percorso di gruppo, mentre tutti i genitori si erano espressi con spontaneità, condividendo le loro preoccupazioni ed i timori rispetto alla realizzazione futura dei figli, lei non ha portato al gruppo alcun contributo, non intervenendo nella discussione. Al quarto incontro la signora entra nella stanza con un’espressione del viso rilassata, siede ed inizia subito a parlare: ‘Ieri ho detto qualcosa a mia figlia’. Questa dichiarazione induce un silenzio pesante che pervade la stanza: i genitori paiono in attesa di qualcosa di molto coinvolgente nella discussione di gruppo.
La signora prosegue: “Anna mi racconta della lezione sul corpo umano che la maestra ha fatto in classe il giorno prima, intorno a lei i bambini ridacchiavano imbarazzati, soprattutto i maschi, a lei veniva da piangere, inizialmente non capiva perché, poi le è venuto in mente che le avevo annunciato che avrebbe dovuto entrare in ospedale per un piccolo intervento ai genitali”. In precedenza la mamma di Anna non aveva mai informato la bambina rispetto alla sindrome e all’intervento correttivo ai genitali cui era stata sottoposta all’età di due anni. Prosegue il racconto: “Anna mi chiede se è proprio vero che lei dovrà essere operata in quella zona del corpo. Poi si mette a piangere e chiede se io sarò lì con lei, io l’abbraccio e la rassicuro, spiegandole meglio i dettagli dell’intervento e soprattutto narrandole la sua storia”. Al gruppo la madre di Anna spiega che per il suo timore di provocare nella figlia un sentimento di diversità per la presenza di una patologia rara, si era creata tra loro una barriera comunicativa che non era riuscita più ad abbattere. Riferisce che le è stato d’aiuto ascoltare nelle sessioni precedenti del gruppo come gli altri genitori avevano affrontato situazioni analoghe. Si rende ora conto che aveva in effetti corso il rischio di perdere, con il suo silenzio, la fiducia della figlia, alterando la capacità di comunicare anche nella imminente fase adolescenziale in cui la condizione clinica di Anna sarebbe stata molto significativa per la trasformazione del corpo e la maturazione della sua identità.
Gruppo di genitori di bambini diabetici in età prescolare
Prima sessione di gruppo di un ciclo di 5 sessioni, presenti 11 coppie di genitori e una madre single.
Vignetta: Una mamma riferisce che Gilda, la sua bambina di 5 anni e mezzo, con un diabete esordito a due anni, la sera prima, mettendosi a tavola, ha chiesto ai genitori ‘da grande guarirò?’. Si tratta di un momento molto delicato per la bambina che tutte le sere, prima del pasto, deve misurare il livello di glicemia nel sangue e fare l’iniezione di insulina. Una sorta di sgradevole rituale cui deve sottoporsi accettando la cura prevista per la sua condizione clinica. La sua domanda provoca un forte impatto emotivo nei genitori che reagiscono in modo diverso: il papà cerca di svicolare e non rispondere e si rivolge in atteggiamento di richiesta di aiuto alla moglie che alla bambina fornisce delle informazioni sul funzionamento delle cellule del pancreas, del metabolismo e degli zuccheri nel sangue. Il gruppo di genitori sembra paralizzarsi di fronte a questa situazione che mette in luce la comune difficoltà di affrontare una verità drammatica che non riescono a condividere in modo adeguato con i loro bambini. C’è chi si identifica con il padre di Gilda, riportando le emozioni percepite in precedenza con il suo bambino, c’è chi cerca di trasmettere agli altri ‘che cosa dire’ in situazioni del genere, chi rimane silente, mostrando una grande sofferenza legata alla consapevolezza che questi bambini non guariranno mai. Un padre dice, con l’aria di chi la sa lunga, che i bambini non devono sapere che non guariranno mai. Una mamma, mettendosi nei panni di Gilda che chiede ai genitori se guarirà, racconta che suo figlio di recente le ha chiesto se da grande dovrà ancora fare le iniezioni di insulina. Il suo movimento identificatorio è stato utilizzato nel processo gruppale come stimolo a riflettere su quale sia la richiesta implicita di Gilda, quella che non è stata espressa dalle parole “da grande guarirò?”. La situazione riportata, attiva nei genitori il pensiero che per i bambini affetti da diabete c’è il fastidio di dover subire una cura che implica un rituale a volte insopportabile ed il bisogno di essere rassicurati da un atteggiamento protettivo dagli adulti e soprattutto da una vicinanza affettiva. Dopo aver ascoltato tutti i contributi portati dai genitori (la mente del gruppo), alla fine dell’incontro la mamma di Gilda riferisce che la sua emozione alla domanda su un’eventuale guarigione era stata talmente forte da non consentirle di accogliere il bisogno della bambina di rassicurazione e di vicinanza affettiva. Nei colloqui successivi all’esperienza di gruppo alla psicologa riferisce che lei e la bambina ora riescono, insieme, a vivere questi sgradevoli rituali necessari per la gestione della cura con una grossa intesa, riuscendo ad accettarli con uno spirito ‘di squadra’. Questo è un esempio della piccola trasformazione che possiamo aspettarci dal lavoro di sensibilizzazione in piccolo gruppo.
Riflessioni conclusive
Grazie all’innovazione introdotta da Balint tramite i risultati della ricerca sulla relazione medico-paziente si è cominciato ad intuire che il medico come persona che interagiva con il paziente aveva egli stesso la funzione di ‘farmaco’, come ci è stato trasmesso tramite le espressioni che lo definiscono: “il medico è il farmaco di gran lunga più usato” (Balint, 1957). Con farmaco si intende anche il modo in cui il medico offre al paziente, verità, tutta l’atmosfera in cui il medicamento viene usato e preso. Attraverso la riflessione sull’esperienza relazionale vissuta tra medico e paziente e sul coinvolgimento emotivo del medico la dimensione psicosomatica è stata messa in luce ed ha assunto un valore riconosciuto in ambito scientifico (Sapir, 1980). Il gruppo, offrendo uno spazio di ripensamento, di riflessione sul proprio lavoro, rappresenta un’opportunità di contenimento emozionale e di maggiore integrazione della propria esperienza professionale.
Per tale potenzialità l’applicazione del metodo messo a punto da Balint non è rimasto un appannaggio esclusivo della professione del medico (Minervino, 2014). Inteso come spazio e luogo che permette, attraverso il confronto e la condivisione dei membri coadiuvati dal leader, di riconoscere che cosa accade nella relazione da un punto di vista affettivo ed emotivo tra due figure, è stato utilizzato per tutte quelle professioni che hanno nella relazione una componente fondamentale. L’operatore, incontrando l’assistito, determina infatti uno scambio di parole, gesti, pensieri, emozioni che rende necessaria, oltre alla conoscenza tecnica basata sul suo ruolo nell’istituzione, una formazione psicologica, per promuovere una maggiore comprensione della propria personalità ed addestrarsi alla disponibilità empatica. In diversi contesti dove sono previsti operatori come ‘professionisti d’aiuto’, il percorso di sensibilizzazione è stato realizzato con l’obiettivo di rendere più trasparenti le emozioni ed i sentimenti che favoriscono o ostacolano nello specifico contesto di riferimento la capacità di accogliere/rispondere alle richieste degli assistiti.
Anche con genitori di bambini seguiti in ambiente sanitario per patologie croniche il GB è stato utilizzato come strumento atto a migliorare la relazione genitore-figlio. Nel contesto ospedaliero ed in ambulatori di cura per soggetti in età evolutiva si sono realizzati gruppi per genitori che presentavano problematiche nello svolgimento del ruolo genitoriale (Bregani, Colombini, 2001). Il percorso ha favorito nei genitori la consapevolezza che, grazie al riconoscimento dei movimenti emotivi di ognuno, analizzabili nel gruppo tramite il confronto e la condivisione, situazioni analoghe potevano essere affrontate con diverse modalità di approccio. Il genitore, attraverso tale continuativa esperienza di sensibilizzazione, veniva stimolato a modificare il suo approccio al figlio -bambino o adolescente- provando a riconoscere le sue emozioni suscitate da comunicazioni o richieste poco ‘ascoltate’ o non comprese. In altre parole, è risultato possibile proporre ai genitori, tramite le esperienze di gruppo, un addestramento all’uso della propria personalità come valido e insostituibile strumento per riconoscere le emozioni messe in gioco nelle interazioni con i figli. Per concludere, si è potuto sperimentare che, attraverso la discussione di casi concreti ed il confronto nel gruppo, il percorso di sensibilizzazione consente ai genitori il recupero degli affetti e delle emozioni.

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