Tra pediatria e psicologia (M. Monguzzi)

È divenuta famosa l’affermazione di Donald Winnicott secondo la quale la prevenzione dei disturbi mentali più gravi si fa in pediatria. È sulla base della sua lunga esperienza di pediatra, prima ancora che di psicoanalista, e grazie all’incontro quotidiano con tanti piccoli pazienti accompagnati dai loro genitori, che Winnicott è giunto a tale convinzione. Già Sigmund Freud, del resto, aveva espresso l’idea che è nell’infanzia che trovano la loro radice i disturbi nevrotici che diverranno evidenti solo a distanza di anni. In numerose anamnesi psicoanalitiche di casi clinici incontrati in età adulta è infatti ricostruibile che le prime manifestazioni di ciò che appare come un problema psicologico avevano avuto, fin dall’infanzia, differenti forme di espressione, anche e innanzitutto di natura somatica. Tale osservazione risulta particolarmente frequente in forme di sofferenza psichica che coinvolgono in modo marcato il corpo quali, per esempio, l’anoressia e la bulimia oltre, naturalmente, ai vari disturbi psicosomatici. Non è rara, però, anche in molti quadri depressivi, come pure nei cosiddetti disturbi narcisistici della personalità.

In pediatria, forse più che in ogni altra specializzazione medica (e ciò è tanto più evidente quanto più è giovane l’età del bambino), si può spesso cogliere in modo palpabile l’influenza significativa delle componenti psicologiche, emotive e relazionali per il benessere e la salute del paziente. L’idea  di una netta distinzione tra corpo e mente appare frequentemente artificiosa quando si ha in cura un bambino: sembra essere più adeguata l’ipotesi dell’esistenza di un continuo somatopsichico. Soprattutto nel neonato e nel lattante, oltre a questa difficoltà di poter porre una chiara separazione fra corpo e mente, va considerato che l’ambiente relazionale in cui il piccolo si trova immerso è, in qualche modo, parte di lui. Tale concezione è stata espressa in modo chiaro e deciso nell’affermazione di Winnicott secondo la quale “un neonato, è qualcosa che non esiste”, intendendo che laddove c’è un piccolo c’è sempre anche l’adulto che se ne occupa e che il suo ruolo ha un’importanza fondamentale, di cui è bene che il medico tenga conto nel dare aiuto al suo giovane paziente, poiché la natura delle relazioni familiari ha un effetto enorme sulla vita del bambino e sul suo benessere. Il lavoro del pediatra si mostra dunque davvero molto delicato e complesso, dato che gli è necessario tener conto di così tanti elementi e fattori nell’occuparsi della salute del suo paziente. Prendersi cura del bambino, inoltre, è qualcosa che, inevitabilmente, implica e coinvolge anche i genitori, con cui è importante che il medico instauri un rapporto positivo e collaborativo. In questo senso, credo possa divenire un’affermazione condivisibile quella che tra pediatria e psicoanalisi esistano numerosi punti di contatto e che non siano due ambiti disciplinari poi così lontani.

Michael Balint, in Medico, paziente e malattia,[2] ha proposto una nozione che mi pare possa essere preziosa in campo pediatrico: “il bambino come sintomo offerto”.[3] Premessa di tale teorizzazione era quella, più generale, che guardava al disturbo fisico portato all’attenzione del medico leggendolo come un sintomo offerto. Balint è giunto a formulare quest’idea a partire dalla considerazione del fatto che buona parte del tempo del medico di famiglia viene dedicato a pazienti con i quali, a ben guardare, ciò con cui si ha a che fare non è tanto l’individuazione e il trattamento di una determinata patologia quanto, piuttosto, una situazione ben più complessa, nella quale le componenti psicologiche del malato e aspetti relazionali sono fortemente presenti. Avviene spesso, infatti, che ciò che si presenta al medico sia una sorta di richiesta di aiuto rivoltagli dal paziente che, pur se inconsapevolmente, si trova a utilizzare un malessere fisico come modalità di espressione di una sofferenza, di un problema, di una difficoltà, di differente origine o natura. Analogamente a quanto sosteneva Winnicott, che guardava al sintomo manifestato dal bambino sempre anche “come un S.O.S. che richiede un’indagine completa sulla storia dello sviluppo emozionale del bambino, relativamente al suo ambiente”,[4] Balint afferma l’importanza di tenere presente questa possibilità, anche laddove si tratta di un malessere corporeo anziché psichico. Sulla base della sua formazione medica e delle conoscenze e dell’esperienza accumulata sia come psicoanalista che come conduttore di quei particolari gruppi di formazione rivolti ai medici che ha ideato e messo a punto e che sono stati chiamati gruppi Balint, l’autore è infatti giunto a sostenere “vi siano persone che, quando per una ragione o per l’altra trovano difficile affrontare i problemi della loro vita, ricorrono alla malattia.”[5] E, descrivendo tale situazione, afferma: “se il medico ha occasione di vederle nelle prime fasi della loro malattia, ossia prima che si fissino in una malattia ben definita ed ‘organizzata’, egli può osservare come questi pazienti offrono, per così dire, o propongono varie malattie, e continuano ad offrirne di nuove, finché tra medico e paziente non venga raggiunto un accordo, quello di accettare entrambi una di queste malattie come giustificata.”[6] In tali particolari ma niente affatto infrequenti situazioni, quindi, secondo la formulazione di Balint, si tratta di un disturbo organico presentato al medico come un sintomo offerto, e cioè, concretamente, di una richiesta di aiuto, pur se indiretta e poco chiara (anche al paziente stesso), che viene rivolta a un professionista competente nella speranza che possa essere accolta, così da poter trovare una soluzione o, quantomeno, sollievo. E qui Balint sottolinea qualcosa che mi pare sia importante evidenziare: che la sofferenza del soggetto venga maggiormente strutturata come disturbo organico anziché no, dipenderà molto da come il medico risponderà all’offerta sintomatica che il paziente gli porge.

Per meglio chiarire questo punto, credo possa essere utile richiamare le seguenti considerazioni: “dobbiamo capire che la malattia ‘funzionale’ del paziente non è il problema, e a fortiori non è neanche un problema psicologico. Una malattia ‘funzionale’ significa che il paziente ha avuto un problema ch’egli ha cercato di risolvere con una malattia. La malattia gli permette di lamentarsi mentre egli non poteva farlo con il suo problema originale. Le ragioni di questa impossibilità possono essere molteplici. Lamentarsi del problema originale può essere troppo vergognoso, imbarazzante, spiacevole, pauroso o doloroso, ecc. Ciò può forse spiegare perché è così raro che un paziente venga apertamente dal dottore con un problema. Di regola, viene lamentando un disturbo, ed il compito del medico è quello di scoprire il problema originale di cui il paziente non può lamentarsi ed al cui posto ha creato una malattia. Così, sebbene il nostro interesse ultimo sia il problema originale, è della malattia che ci dobbiamo occupare per prima cosa.”[7] Va infatti tenuto ben presente che ciò che preoccupa il paziente, tanto da venir trasformato in sofferenza del corpo, è qualcosa a cui è possibile avvicinarsi soltanto con estrema delicatezza, con tatto. Sia, da un lato, perché si tratta, molto probabilmente, di una questione che è davvero difficile da affrontare per il soggetto; sia, dall’altro, poiché non va trascurato il fatto che il sintomo organico risulta essere anche, nonostante la sofferenza che comporta, una sorta di soluzione rispetto alla difficoltà che vi sta dietro. Balint mette dunque in guardia dall’aver troppa fretta di giungere a scoprire quale sia il problema sotteso, e si mostra, in ciò, in sintonia con quanto sostiene Winnicott: “il sintomo rappresenta un’organizzazione estremamente complessa, prodotta e mantenuta in ragione del suo valore. Il bambino ha bisogno del sintomo per esprimere un ostacolo nel suo sviluppo emozionale.”[8] È quindi opportuno tenere conto di quest’aspetto, nel mirare a liberare il soggetto del suo disturbo. Secondo quanto Balint descrive, infatti, “quando il paziente si trova di fronte ad un problema troppo difficile da risolvere per lui, il suo equilibrio si rompe parzialmente […] e, dopo un certo periodo […], egli consulta il medico e si lamenta di una data malattia. Fatto sorprendente, nel rapporto medico-paziente accade solo di rado che un paziente si presenti con un problema. In altre parole, i pazienti consultano il medico solo quando hanno, per così dire, trasformato la lotta con il loro problema in una malattia.”[9]

Descrivendo la fase iniziale di tale modalità di utilizzo del corpo come tentativo di dare una forma un po’ più gestibile alla sofferenza o al disagio del soggetto, Balint nota che, “per alcuni, questa fase ‘non organizzata’ è di breve durata e si trasforma rapidamente in malattia ‘organizzata’; altri sembrano perseverare in essa e, sebbene abbiano in parte organizzato la loro malattia, continuano a proporre nuovi mali al medico.”[10] L’autore nota che “la varietà di malattie di cui può disporre ogni individuo dipende dalla sua costituzione, dalla sua educazione e posizione sociale, dai suoi timori consci od inconsci e dall’immagine ch’egli si fa delle malattie, ecc.  Tuttavia […], malgrado queste limitazioni, le offerte e le proposte sono sempre varie.”[11] In tale contesto, “le reazioni del medico possono contribuire considerevolmente, e spesso lo fanno, alla forma ultima della malattia in cui si fisserà il paziente.”[12] Con quest’affermazione, Balint non intende soltanto riferirsi al ruolo del medico, con il suo concordare nel definire patologico anziché no il sintomo che il paziente offre, e dunque porre in rilievo il peso che avranno le sue valutazioni sulla forma che assumerà il disturbo lamentato. Dice anche di più: se il medico sceglierà di svolgere sul piano puramente organico la sua indagine mirante a definire una diagnosi, il malessere del paziente tenderà più facilmente a strutturarsi in quella direzione, stornando così ancor più l’attenzione da ciò che era la questione originaria, cui il soggetto è giunto a dar forma di affezione corporea. L’autore mostra, in tal modo, quale grande responsabilità gravi sul medico per quanto attiene quello che sarà il successivo decorso del disturbo del paziente. Balint sottolinea, in proposito, che “il problema di ‘che cosa si deve trattare’ non è veramente importante che nella fase iniziale, ‘non organizzata’ d’una malattia.”[13] È infatti soprattutto quando ancora ha la forma di un’offerta che il sintomo risulta essere maggiormente mobile e, dunque, più semplicemente riconducibile al problema o alla difficoltà con cui il paziente fa tanta fatica a confrontarsi. Se, però, pur con qualche perplessità sull’effettiva natura puramente somatica del malessere presentatogli, il medico sceglie di intraprendere una serie di esami e, magari, nel dubbio diagnostico, di inviare il paziente a uno o più specialisti, finirà col favorire (anche se, ovviamente, senza averne l’intenzione) il ‘fissarsi’ di una più stabile affezione organica.

In ambito pediatrico credo sia ancora più importante di quanto già non lo sia nel caso di un paziente adulto tener conto della seguente osservazione di Balint: “trascurare una possibile malattia psicologica per accertarsi dell’assenza di disturbi fisici può essere altrettanto deleterio per il futuro del paziente quanto l’opposto che si cita normalmente, ossia concentrarsi esageratamente sulle implicazioni psicologiche e trascurare di conseguenza le possibili cause fisiche.”[14] Già Sándor Ferenczi, maestro di Balint, aveva infatti notato che “le reazioni del bambino piccolo al dispiacere sono sempre, inizialmente, di natura somatica”.[15] E pure Winnicott, del resto, aveva messo in guardia contro i rischi cui ci si espone considerando puramente sul piano somatico un malessere presentato in età pediatrica: “è a causa del pericolo di trasformare in una montagna isterica un piccolo cumulo d’ansia che diventa essenziale per il medico acquisire una chiara conoscenza del comune quadro d’ansia. È importante, infatti, che questi bambini fisicamente sani ma emozionalmente instabili non vengano classificati come affetti da reumatismo, appendicite cronica, colite, ecc. e non vengano tenuti a letto – forse per dei mesi – e magari sottoposti ad interventi chirurgici.”[16] Va invece tenuto presente che “l’ansia produce spesso dei sintomi fisici o è da questi accompagnata”,[17] sintomi che parlano di una sofferenza che sta altrove, pur se si mostra nel corpo, e aggiunge: “inoltre, conoscendo il modo di trattare un bambino ansioso, il che significa per il medico osservare passivamente e senza ansia, si può, in molti casi, affrettare la guarigione.”[18]

Considerato che “la risposta del medico alle offerte del paziente, od al sintomo presentato, costituisce un fattore della massima importanza nell’evoluzione della malattia”,[19] diviene evidente a quale gravosa responsabilità si trovi di fronte il pediatra che decida di trascurare di indagare anche la possibilità di componenti psicologiche e relazionali nel caso con cui si confronta. La diagnosi che deriverà da tale esclusione potrà essere perfettamente corretta e adeguata a inquadrare lo specifico problema organico del bambino; rischierà però di essere incompleta e, in quanto tale, di risultare un’occasione mancata al poter affrontare tempestivamente quella che è la difficoltà o la sofferenza che vi sta dietro e per la quale il genitore che porta suo figlio dal medico chiede, anche se mediante una via lunga e tortuosa, di poter ricevere aiuto. In altri termini, “è opportuno che il medico miri ad una diagnosi più completa e profonda. Con ciò intendo una diagnosi che non si accontenti di comprendere tutti i segni ed i sintomi fisici ma cerchi di valutare anche la portata dei cosiddetti sintomi ‘nevrotici’.”[20]

Anziché considerare il problema presentato esclusivamente sul piano organico, se in sede diagnostica si amplia la prospettiva anche alla considerazione dell’esistenza di eventuali componenti psicologiche o relazionali nella genesi del malessere portato all’attenzione del medico, il panorama si trasforma radicalmente. Azzardando un’approssimativa proporzione, Balint afferma: “in circa un terzo dei casi in cui dei bambini vengono accompagnati dal medico dai genitori, sono i genitori stessi che hanno bisogno di essere curati; […] in un altro terzo, hanno bisogno di cure sia genitori sia bambini e, […] unicamente in un terzo dei casi, è solo il bambino ad averne bisogno.”[21]

Con la nozione del bambino come sintomo offerto Balint non intende certo negare l’esistenza di disturbi e patologie di natura puramente corporea in età pediatrica, né sminuire la loro importanza. Ciò su cui richiama l’attenzione del medico è che “in molti casi la malattia del bambino è anche il sintomo offerto della malattia dei genitori.”[22] Notiamo che, dicendo che è anche un sintomo offerto, Balint pone in rilievo il fatto che, in effetti, la sofferenza fisica esiste e non va dunque ignorata o trascurata. Tuttavia, nel prendersi cura del bambino, può risultare estremamente utile allargare lo sguardo diagnostico anche alla possibile presenza di altri fattori, oltre a quelli biologici, in grado di avere un’influenza sulla sua salute. Pure là dove esiste una reale sofferenza somatica del bambino, tale manifestazione può infatti avere a livello relazionale o psicologico la sua origine. In tali situazioni, occuparsi esclusivamente del trattamento del disturbo organico presentato dal bambino rischia di trascurare quelle che ne sono le case, esponendo il piccolo, spesso entro un breve giro di tempo, a trovare nuovamente nella forma di un malessere fisico la modalità di espressione di un disagio che ha altrove, anziché nel suo corpo, la sua fonte.

Illustrando in cosa consista il bambino come sintomo offerto, Balint sostiene che “in un gran numero di casi in cui vengono frequentemente accompagnati dal medico certi bambini, specialmente bambini piccoli, la persona realmente ammalata è la madre (meno spesso, il padre; molto frequentemente, entrambi i genitori). Generalmente, si riesce a curare facilmente la malattia del bambino, ma solo per far posto a un nuovo disturbo.”[23] Così, si assiste spesso, in quei bambini definiti generalmente come cagionevoli, a una sorta di staffetta: dove una remissione sintomatica lascia il testimone, dopo un breve intervallo, a un nuovo disturbo o a una ricaduta nel precedente.

Tenendo conto che “è colui che intraprende il trattamento che deve prendere le decisioni e sopportarne le conseguenze”,[24] Balint sottolinea come “il criterio di giudicare della saggezza di una decisione è se questa comporta o no migliori prospettive terapeutiche per il paziente.”[25] E rivolgendosi al medico di base, ma mi pare che lo stesso possa valere per il pediatra, dice: “il miglior consiglio che si possa offrire al medico generico, principiante od esperto che sia, è il seguente: nel dubbio, non avere fretta, ma ascoltare.”[26]

Balint insiste con forza su questo punto e afferma che il medico, “prima di poter giungere a quella che abbiamo chiamato una diagnosi ‘più profonda’, […] deve imparare ad ascoltare. Questo ascoltare è una tecnica molto più difficile e sottile di quella che deve necessariamente precederla – la tecnica di mettere il paziente a suo agio e di dargli la possibilità di parlare liberamente. Quella di ascoltare è un’abilità nuova, che esige una modificazione notevole seppur parziale della personalità del medico.”[27] È proprio per sviluppare e affinare queste preziose competenze, così utili nella clinica, fino a farne degli strumenti tecnici della professione medica, utilizzabili con altrettanta perizia degli altri, che Balint, pensando all’utilità di poter “contribuire in maniera concreta alla integrazione della psicologia con la medicina”,[Balint ha proposto i gruppi di formazione per medici che portano il suo nome.

Maura Monguzzi
Psicologa-Psicoterapeuta
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